Il 20 settembre voterò NO nel referendum sul taglio dei parlamentari per gli stessi motivi per i quali ho votato allo stesso modo il 4 dicembre 2016 e in tutte le precedenti consultazioni confermative delle (contro)riforme costituzionali, perché non ne condividevo (e continuo a non condividere, pur notando le differenze) lo spirito, i contenuti, la forma. Non mi imbarazzano per niente gli argomenti di quanti invitano a votare SÌ "per non lasciare ai populisti una riforma giusta" oppure a prendere atto che, nell’impraticabilità di una revisione organica, tanto vale accontentarsi di una riforma "a pezzi". Per quanto mi riguarda, esiste un’alternativa: quella di custodire il testo del 1948.

Gli ordinamenti costituzionali, prima ancora che per affermare dei particolari valori e principi, nascono contro altri valori e principi. Non c’è dubbio che la Carta approvata dall’Assemblea Costituente volle contrastare valori e principi autoritari prima ancora che affermarne di liberali e democratici. Come scrisse Piero Calamandrei: "È stato detto giustamente che le Costituzioni sono anche delle polemiche, che negli articoli delle Costituzioni c’è sempre, anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime’’.

In sostanza, gli ordinamenti si definiscono per contrastare le forze ritenute eversive. Da noi si è fatto e si sta facendo il contrario: si accarezza secondo il senso del pelo la bestia feroce nel tentativo di rabbonirla. In sostanza, sono di solito le forze eversive a dettare la linea del cambiamento. Le riforme del 2001 e del 2006 (quella realizzata del Titolo V e quella bocciata dalla consultazione popolare) inseguivano ambedue la chimera del federalismo (che poi divenne devolution) al solo scopo di contendere prima, di accontentare poi, la Lega che, agitando queste problematiche come una clava, aveva attecchito tra le popolazioni del Nord. Oggi di federalismo non parla più nessuno, nonostante che sia ancora lì il quadro legislativo predisposto nella XVI Legislatura, con voti largamente bipartisan. L’ultimo scampolo di quella stagione (l’autonomia differenziata) è fermo su di un binario morto.

Sarebbe il caso che gli italiani valutassero i danni provocati dalla riscrittura del Titolo V nei rapporti tra Stato e Regioni durante la pandemia e magari provassero a immaginare che cosa sarebbe successo in regime di devolution. Quanto alla riforma del 2016, essa aveva al proprio interno l’anima nera dell’antipolitica (le suggestioni lungamente praticate negli anni scorsi che hanno finito per scuotere l’albero e far cadere i frutti nell’orto del M5S). Si è voluto costituzionalizzare l’invidia sociale (si pensi che diventava norma costituzionale il livello degli stipendi dei consiglieri regionali e dei sindaci e che si piantano, qua e là, la bandierine festose della gratuità delle cariche). Le istituzioni stesse erano descritte come un male necessario, da ridimensionare il più possibile. E così la c.d. semplificazione viene presentata come una sorta di riduzione del danno (meno poltrone, meno stipendi e quant’altro).

Per chi scrive l’antipolitica è la stessa arma che i fascismi europei del secolo scorso usarono per conquistare il potere. Anche allora erano nel mirino le vecchie classi dirigenti liberali, le ristrette oligarchie élitarie che pure avevano il merito della conquista e del mantenimento di ordinamenti costituzionali. Non è quindi possibile un uso corretto di un’ideologia sbagliata. Il taglio dei parlamentari su cui si voterà a settembre appartiene a quella stessa (sub)cultura. Per di più, nel contesto istituzionale che uscirebbe dalla sua applicazione, deriverebbero dei pericoli seri per la stabilità che dipenderebbe dal varo di altre misure costituzionali, legislative e regolamentari sulle quali non esistono progetti condivisi e forze politiche disponibili. Far prevalere i sarebbe come sottrarre a un equilibrista, che passeggia sul filo teso tra due campanili, le rete protettiva, promettendogli che ne verrà stesa un’altra più sicura appena sarà prodotta.

Tra gli altri argomenti portati a sostegno del "taglio" primeggia l’esigenza di una maggiore tempestività del lavoro legislativo. Nel 2016 si attribuiva la responsabilità della inefficienza alla perdita di tempo delle doppie letture e delle "navette" tra una Camera e l’altra (eppure, nel semestre dell’emergenza sanitaria, si è trovato il modo di approvare un decreto al mese). Oggi, invece, viene ribadita la logica dei "pochi ma buoni". Ma chi garantisce che la "carica dei seicento" sia composta dai "migliori"? È molto più facile che gli "eletti’" appartengano al giro stretto della politica e che la fedeltà ai leader delle correnti - gli stessi che compilano le liste - sia preferita alla competenza e alla esperienza. Resta incomprensibile che il Parlamento sia stato indotto - nelle revisioni della legge fondamentale - a seguire la via impervia dell’articolo 138 Cost. quando sarebbe bastato agire sui Regolamenti per eliminare procedure inutili e loboriose.

Tanto per fare degli esempi, non ha senso che, alla Camera, prima di votare la fiducia al Governo su qualsiasi provvedimento, si debba cessare ogni attività per 24 ore. Non ha senso che gli stessi emendamenti, bocciati nelle Commissioni, possano essere riproposti, ridiscussi e rivotati nelle Aule. Non ha senso perdere tempo, tanto in Commissione quanto in Aula, con la discussione generale, durante la quale sono presenti e partecipano solo gli iscritti a parlare (duelli oratori per la trascrizione nel resoconto, perché nessuno li ascolta) e se, sono fortunati, qualche loro amico (a cui dopo offrono il caffè). E che dire della sceneggiata del question time, fatto apposta per far apparire in televisione l’interrogante e quei pochi che "fanno gruppo" vicino a lui? Lo stesso rapporto tra Aula e Commissioni è una questione di carattere regolamentare. La Costituzione, per esempio, consente alle Commissioni di deliberare in via legislativa. Ma questo non avviene quasi mai, neppure per le leggine.

Ma una revisione della materia consentirebbe un radicale snellimento dei lavori parlamentari, anche in un sistema di bicameralismo paritario. Eppure l’esperienza dimostra che si impiega più tempo a modificare i Regolamenti che a percorrere l’iter complesso richiesto per modificare le norme di una Costituzione rigida. Che altro aggiungere? Basta ricordare ancora una volta le parole di Piero Calamandrei ai giovani: "Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione".

Giuliano Cazzola