L’infarto è sempre stato un mistero: spesso se ne parla per i fattori di rischio, per le conseguenze, ma il meccanismo che lo causa è ancora oggetto di studio. Ora un nuovo report, tutto italiano, mette in luce i suoi segreti e apre nuovi scenari sullo studio delle placche aterosclerotiche, quelle che "in un attimo" lo causano. "Negli ultimi trent’anni la ricerca si è focalizzata soprattutto sui meccanismi che rendono instabile la placca, ma questi non hanno consentito di individuare dei biomarcatori in grado di anticipare il ‘big one’, cioè l’infarto o la morte improvvisa", scrivono i ricercatori. La ricerca, pubblicata sul ‘New England Journal of Medicine’, è firmata da Filippo Crea, direttore del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari e Pneumologiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma e dell’Uoc di Cardiologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs, e Rocco Vergallo, contrattista in cardiologia.

"L’aterosclerosi non viene da un giorno all’altro. Le placche che impediscono al sangue di scorrere nelle arterie impiegano infatti anni a formarsi. Ma l’infarto avviene in un attimo, spesso senza preavviso - evidenzia lo studio - E a fare la differenza tra il prima e il dopo è la formazione improvvisa di un trombo, un grumo di sangue che si forma sulla placca aterosclerotica e finisce col chiudere del tutto l’arteria. Ma questo è solo l’epilogo della storia. Le placche aterosclerotiche non sono un semplice ispessimento della parete interna dei vasi, sono strutture ‘vive’ che attraversano fasi di ‘attivazione’, durante le quali diventano instabili e dunque a rischio di trombosi, e fasi di ’guarigione".

"Negli ultimi trent’anni l’attenzione dei ricercatori si è rivolta all’altro lato della medaglia, ovvero ai processi di ‘guarigione’ della placca e la review appena pubblicata dai cardiologi dell’Università Cattolica e del Gemelli fa il punto della situazione sul loro ruolo nella comparsa delle sindromi coronariche acute e sulle possibili ricadute terapeutiche che queste scoperte potrebbero avere". "Le coronarie, come tutte le arterie - spiega Crea - sono tubi elastici che portano sangue agli organi. Le placche aterosclerotiche sono una sorta di montagne, che crescono e protrudono all’interno delle arterie. Se queste ‘montagne’ crescono nelle coronarie (i vasi che portano ossigeno e nutrimento al muscolo cardiaco) e superano una certa altezza, limitano l’incremento del flusso di sangue di cui il cuore ha bisogno, quando si fa uno sforzo".

Questa è la causa dell’angina da sforzo. Un sintomo fastidioso ma non pericoloso. Ma cosa succede invece quando si ha un infarto? "Succede che la montagna diventa un vulcano - risponde Crea - emette cenere e lapilli (coaguli) che ostruiscono la coronaria all’improvviso, in poco tempo. Questo ‘vulcano’ è molto più pericoloso delle montagne perché può causare un infarto o la morte improvvisa". Non tutte le placche aterosclerotiche sono destinate però a provocare un infarto, cioè a diventare un ‘vulcano’. Riuscire a comprende perché alcune sono vocate all’infarto, mentre altre no è un nodo cruciale delle ricerche in corso. "Solo alcune placche diventano vulcani - rassicura Crea - Il controllo dei fattori di rischio e le terapie che facciamo ai pazienti che hanno le ‘montagne’ nelle coronarie hanno proprio questo scopo: evitare che le montagne diventino vulcani. Purtroppo, nonostante gli straordinari progressi terapeutici fatti nell’arco degli ultimi decenni, l’infarto rimane il killer numero uno sia negli uomini che nelle donne. È necessario dunque fare di più".

Ma più si va avanti con le ricerche, più le cose si complicano. "Abbiamo scoperto che le ‘eruzioni’ delle montagne-placche aterosclerotiche sono molto frequenti, ma fortunatamente molte di esse non danno sintomi perché l’organismo reagisce ‘spegnendo’ il vulcano, cioè facendo guarire la placca e scongiurando così la formazione della trombosi - sottolinea Crea - Alcuni pazienti sono ottimi guaritori di placche, mente altri che non lo sono affatto. Questa scoperta ci pone di fronte ad un nuovo obiettivo terapeutico: trasformare i cattivi guaritori di placca in buoni guaritori. Ma per arrivare a ottenere questo risultato dobbiamo arrivare a capire meglio i meccanismi molecolari alla base della guarigione di placca. Questo ci consentirà di migliorare la prognosi delle persone con patologia aterosclerotica perché - conclude - oltre a ridurre il rischio che si formino i vulcani, saremo in grado di ‘spegnerli’ in maniera efficace, anche nei pazienti ‘cattivi guaritori’, quelli nei quali non riusciremo ad evitare la formazione dei ‘vulcani’".