Ora che si è posato al suolo il polverone propagandistico del tutti-vincitori-alle-Regionali-tranne-uno (Matteo Salvini), si coglie con chiarezza il vero nodo politico che il test elettorale ha messo a nudo: la liquefazione nelle urne del Movimento Cinque Stelle. Un tale tonfo nei consensi non può essere archiviato senza avere ripercussioni sul quadro politico. Benché Luigi Di Maio e soci abbiano fatto di tutto per nascondere la sconfitta e tornare indisturbati alla gestione del potere, i fermenti in atto nel Movimento vanno trasformandosi in bollori che segnalano un’esplosione imminente. Tra i grillini non c’è più condivisione di progetti e di strategie. All’ala governista di Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli, a cui si affianca quella fusionista con il Partito Democratico rappresentata da Roberto Fico e Roberta Lombardi, si contrappone l’anima radicale che si riconosce in Alessandro Di Battista e nella pasionaria leccese Barbara Lezzi. A dare fuoco alle polveri è stato proprio Di Battista che ha messo una pietra tombale sul Movimento. Ammette la sconfitta elettorale – la peggiore nella storia del Movimento – ovunque e con qualsiasi formula i Cinque Stelle si siano presentati; denuncia una crisi d’identità profonda del grillismo; ammonisce di non indulgere in facili entusiasmi per il voto referendario dal momento che "gli italiani hanno apprezzato che si intervenisse in maniera precisa e puntuale sul calderone. Ma è altrettanto vero che tante persone che hanno votato sì non apprezzano il Movimento, magari lo detestano"; invoca gli "Stati generali" per una palingenesi dei Cinque Stelle; non rivendica esplicitamente a sé la leadership perché "si può mettere De Gaulle a capo del Movimento, e nessuno lo è, ma senza identità non si prendono voti", ma, a riguardo, preannuncia battaglia. Tuttavia, una critica di tale portata è difficile che abbia un esito diverso dalla scissione. Al momento, le declinazioni del grillismo non sono riducibili a un minimo comun denominatore. La debolezza dell’architettura ideologica ha fatto sì che, messi alla prova di governo, sulla tenuta politica facessero aggio le ambizioni personali e l’ancestrale richiamo del potere. Sul banco degli imputati "Dibba" e i duri e puri metteranno il rapporto con il Pd, rivelatosi esiziale per il Movimento. La "variabile" Di Battista non esclude pregiudizialmente l’interruzione dell’esperienza di governo con la sinistra e l’immediato ritorno alle urne. E non sarebbe il suicidio politico temuto. Di Battista, consapevole della fine della parabola grillina, potrebbe avere convenienza a rischiare adesso la verifica elettorale con una piattaforma programmatica che rilanci gli slogan originari dei pentastellati e faccia breccia su quel segmento di elettorato deluso dagli sviluppi della legislatura corrente ma ancora disponibile a concedere un’apertura di credito a chi si professi sinceramente anti-sistema. Di Battista ha le carte in regola per parlare a questa gente: ha fatto una sola legislatura e se n’è andato; non si è sporcato le mani con i giochi di palazzo nei quali, invece, il neo-democristiano Di Maio ha sguazzato. Al contrario, la difesa a oltranza dello status quo potrebbe portare ad una lenta consunzione del Movimento nei due anni e mezzo che lo separano dalla fine della legislatura col rischio, a questo punto concreto, che approvata la nuova legge elettorale con soglia di sbarramento al 5 per cento, ciò che resterà del Movimento potrebbe non farcela a ritornare in Parlamento. In realtà, già lo scorso anno, quando la Lega ruppe l’alleanza di governo, Di Battista provò a convincere i suoi che sarebbe stato meglio ritornare al voto piuttosto che imbarcarsi in un’avventura incomprensibile per il proprio elettorato. Non gli diedero ascolto anche perché nel frattempo era venuto fuori Beppe Grillo con il progetto di svendita del Movimento al Pd. La storia non è fatta di "se".

Tuttavia, come diceva qualcuno, i "se" aiutano a capire la storia. Di Battista aveva visto giusto. Se avessero votato l’ottobre scorso il Movimento si sarebbe dimezzato nei consensi, ma un 15/16 per cento l’avrebbe comunque conservato. Il test delle Regionali oggi lo colloca ampiamente sotto la soglia psicologica del 10 per cento. Ma se la curva discendente non si dovesse arrestare tra due anni anche un 7 per cento potrebbe essere utopia. Sul fronte opposto c’è Luigi Di Maio che ha inciso sul suo vessillo "Hic manebimus optime". Se pure non dovesse conoscerne il significato letterale, ne ha colto lo spirito. Di Maio si è trasformato in un politico a tutto tondo, pronto a barricarsi nella stanza dei bottoni. Anche a lui non sfugge l’irreversibilità della crisi grillina. Ma, a differenza del suo ex-gemello, non ritiene di dover tornare alle origini per ricostruirsi una credibilità politica, piuttosto pensa di "evolversi" in un nuovo soggetto centrista che possa fare da ago della bilancia tra forze opposte in un futuro Parlamento votato sulla base di un meccanismo proporzionale. Luigi Di Maio avrà valutato che, il giorno dopo delle elezioni, qualsiasi coalizione, di destra o di sinistra, volesse formare un governo avrebbe bisogno dei suoi voti. E lui sarà pronto e disponibile a sedere a tutti i tavoli negoziali fino a scegliere il miglior offerente. Si dirà: c’è Giuseppe Conte. Di Maio ne è consapevole ma sa che non sarà un problema. L’attuale premier non ha una struttura partitica propria su cui contare e, Mario Monti docet, per costruirne una che dia risultati affidabili sono richiesti un lavoro e un tempo che non ci sono fino all’ormai vicino 2023. Il giovanotto di Pomigliano d’Arco punterà a una dignitosa sistemazione istituzionale per il suo potenziale concorrente. Poi c’è Grillo che non ha rinunciato al suo progetto di cessione del Movimento al Pd. Lo dimostra l’uscita dell’altro ieri nel dibattito con il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli. Il comico genovese è ricorso a un effetto pirotecnico, l’abolizione del parlamentarismo e l’instaurazione della democrazia diretta, per distrarre l’attenzione del pubblico dal vero obiettivo: la liquidazione del Movimento. Dire: il parlamentarismo non serve più, è stato il segnale in codice ai suoi di tenersi pronti a confluire nel Partito Democratico. Su questa strada c’è l’ininfluente Roberto Fico, ma quanti altri si sono decisi al grande passo ora che si sono dati la zappa sui piedi votando il taglio dei parlamentari? A completare il quadro ci sono i cosiddetti peones. Sono quei parlamentari "invisibili" che i giornalisti non intervistano e i talk-show non invitano. Costoro hanno un solo motto: io, speriamo che me la cavo, perché sanno di essere condannati all’irrilevanza fino all’esaurimento del mandato che non gli verrà più rinnovato. Allora, addio stipendi sicuri, benefit da parlamentari e quella minima ossequiosa attenzione che il popolo di prossimità, dal salumiere al calzolaio, riserva a chi del loro quartiere o paesino da quivis de populo sia diventato una persona importante. I peones, soprattutto se senatori, messi spalle al muro dalla dirigenza di un Movimento in liquidazione, potrebbero decidere di vendere cara la pelle mettendosi in proprio sul mercato delle compravendite parlamentari. Nel caso, la vita politica di Conte e del suo Governo non varrebbe un soldo bucato. Quella dei Cinque Stelle è una partita aperta e dal finale nient’affatto scontato. La condizione di sospensione del tempo in cui sembrano immersi i grillini non durerà a lungo. L’opposizione di destra dovrà solo avere le pazienza di attenderne gli esiti senza, nel frattempo, combinare guai inscenando autolesionisti "processi alla tappa". Che non aiutano la causa.

CRISTOFARO SOLA