Non sorprende che la stragrande maggioranza degli elettori abbia votato "Sì" al referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari. Non poteva andare diversamente. E il motivo non sta tanto nella forza persuasiva esercitata dalle indicazioni di voto dei principali partiti, quanto nel substrato culturale che imbeve, vien da dire inzuppa le cervella di una parte consistente di quella maggioranza. Nessuna sorpresa, dunque. Sgomento, sì. Mi spiego. Fra i 17 milioni di italiani favorevoli al "taglio" si possono probabilmente isolare tre specie di elettori. Anzitutto vi è una sparuta schiera che, in "scienza e coscienza", crede veramente che da esso possano discendere ulteriori riforme. E chi, sempre in "scienza e coscienza", pensa che il taglio sia un primo passo non già per scardinare il sistema parlamentare, ma per ammodernare una macchina usurata dal tempo. Argomenti seri, questi, da considerare con attenzione, sebbene a me siano sempre apparsi scarsamente convincenti. Un’altra parte di quell’elettorato, invece, ha inteso usare la scheda come un grimaldello: per iniziare a scardinare, proprio, il Parlamento e il sistema parlamentare, ritenuti orpelli dannosi per la genuina realizzazione della così detta volontà popolare. Argomenti molto pericolosi, questi, perché anticipatori di forme di governo oligarchiche, che per loro natura non possono non tentare di ridurre in cenere i presidi della democrazia rappresentativa. La stragrande maggioranza di quegli elettori, però, è stata animata da un diverso intento, forse meno raffinato di quest’ultimo in chiave culturale, ma non meno potente in chiave emotiva: svuotare il più possibile l’istituzione cardine del sistema perché giudicata covo di briganti, nullafacenti e corrotti, vista come centro infestato e infestante del resto del sistema. La preoccupazione, qui, si fa sgomento almeno per due motivi. Perché non vi è stato nessun partito e men che meno segretario di partito o uomo delle istituzioni con due dita di fegato che abbia alzato la voce per far capire che il parlamento non è un covo di sfruttatori, se non nella narrazione distorta e dileggiatrice di chi sta tentando di chiuderlo. E sta tentando di chiuderlo non perché covo, ma paradossalmente perché sede del confronto e del pluralismo! L’altro motivo di sgomento è questo: il voto di chi la pensa così è figlio di una semina (pseudo) culturale lenta, ma abbondante, durata almeno venticinque anni sull’inutilità della politica collegiale intesa come strumento di buon funzionamento della democrazia. È ormai attecchita la convinzione che si possa governare senza organi collegiali o con organi dotati di collegialità minimale, senza condividere le decisioni con le minoranze, senza i corpi intermedi delle forze sociali e perfino senza i partiti. Quel che conta e quel che basta per governare è che vi sia l’uomo giusto, al posto giusto, al momento giusto. Questo modo di ragionare è radicato in tutti i settori della società e in tutte le classi sociali. Potranno passare o ridimensionarsi le forza politiche chi fin qui lo hanno cavalcato più di altre, ad iniziare dal Movimento 5 Stelle, ma il chicco malato che in questi anni è stato seminato continuerà a far frutti. È illusorio credere che il populismo scompaia solo perché scompare o si ridimensiona il partito che finora lo ha elevato a bandiera. Il populismo non è soltanto un fenomeno sociale e politico, anzitutto è un fenomeno culturale e dunque anche se nessuna forza politica se lo intestasse, continuerebbe a produrre le sue colate a tal punto scivolose da mettere a rischio l’equilibrio del sistema democratico. Ecco perché la preoccupazione si fa sgomento.

"Non è il Paese che sognavo", direbbe Carlo Azeglio Ciampi. Io lo ripeto con Lui.

ALESSANDRO GIOVANNINI