Fanno shopping nel nostro Paese. Cinesi, tedeschi, francesi, spagnoli. Ma non si tratta di turisti a passeggio tra le vie del centro che escono dalle boutique, firme del nostro Made in Italy. Si tratta piuttosto di colossi della nostra economia che prendono il volo cambiando improvvisamente bandiera. È proprio il caso di dirlo, Made in Italy addio. É questo il grido di dolore della Confimi Industria, la Confederazione del Manifatturiero privato italiano. Intanto continua a crescere la lista delle aziende italiane vendute all’estero, realtà imprenditoriali che finiscono per perdere la loro identità (e spesso anche i poli produttivi): negli ultimi anni oltre 500 marchi italiani sono passati in mano straniera.

E a ogni nuova acquisizione estera si ripropone, con sempre più urgenza, il quesito sulle conseguenze di questa svendita del patrimonio imprenditoriale italiano. Ma non è di certo un caso se queste aziende – e ne cito giusto qualcuna - hanno dovuto cambiare bandiera: Buitoni, Parmalat, Santarosa, Valentino, Telecom, Peroni, Fiorucci, Algida, Carapelli, Fendi, Safilo, Pininfarina, Italcementi, Pirelli, Bulgari, Loro Piana, Cova, Gucci, Bottega Veneta, Richard Ginori, Pomellato, Brioni, Poltrone Frau, Krizia, Goldoni, Grom, Fastweb. Abbiamo ceduto perfino i nostri club di calcio. E l’ultimo esempio arriva da Goldoni, oggi cinese.

Possibile che la politica non si accorga delle continue difficoltà, degli impedimenti, delle disparità che un’azienda sita in Italia debba affrontare per competere sui mercati internazionali? E dov’erano i sindacati e la rappresentanza industriale quando si parlava di globalizzazione e andavano dettate regole certe per difendere, sostenere e promuovere la nostra economia fatta di piccole e medie imprese? Seppur definite, dalla stessa Europa, un’eccezione tra le PMI del Vecchio Continente, non possiamo di certo dimenticarci che si tratti di oltre 4 milioni di eccezioni che ogni giorno garantiscono oltre 16 milioni di posti di lavoro e ogni anno contribuiscono all’87% del PIL. Ma le aziende che vengono acquisite non sono l’unico segnale d’allarme. Il malessere della nostra economia ha (anche) altri sintomi.

Ci sono, per esempio, oltre 35.000 aziende italiane – stime a ribasso - con partecipazioni all’estero, di fatto "delocalizzate" per quanto riguarda la produzione, portata al di fuori della Penisola. Di queste, un numero spaventa molti ma al tempo stesso ne incoraggia altri a seguirne le gesta: un +8,3% ovvero la crescita del loro fatturato dovuto per lo più a minori costi fissi. Una percentuale che, in termini assoluti, può essere tradotta in un giro di affari di oltre 40 miliardi di euro.

'In attesa dell’impatto che la pandemia avrà anche sulle crisi aziendali, si contano i tavoli di crisi aperti al Ministero dello Sviluppo Economico: sono 120, una decina in meno rispetto allo scorso autunno e 40 in meno rispetto ad un anno fa, ma pur sempre 120. Vertenze che coinvolgono circa 170mila lavoratori. Già perché è solo quando quest’ultimi si barricano in fabbrica o promuovono sit in di protesta che si accende un faro sull’economia nostrana. Ed ecco che si demonizza l’imprenditore "brutto, sporco e cattivo" che antepone i propri interessi a quelli dei dipendenti, che privilegia il fatturato al territorio. Ma qualcuno si è mai chiesto cosa costringa un industriale a lasciare la propria casa, la propria città, rinunciare a collaboratori fidati e a mani esperte?

Marchi storici, imprese di famiglia, storie industriali e familiari legate a doppio filo a un materiale, a un prodotto, a un settore vengono spazzati via da costi fissi insostenibili. Tralasciando corruzione e burocrazia, ostacoli spesso proibitivi e scoraggianti soprattutto per le multinazionali che vorrebbero investire nel Belpaese, avere il costo dell’energia tra i più alti del mondo e un costo del lavoro tra i più alti in Europa mette spesso fuori gioco le industrie.

Due fattori che influiscono in maniere decisiva non solo sui bilanci ma sull’intera operatività e produttiva degli stabilimenti, fattori che ci lasciano ai margini del mercato. Costi fissi ed elevati che non ci permetto infatti di competere sul prezzo, facendoci perdere l’affidamento di numerose commesse per pochi centesimi e ancora non ci dà la possibilità di presentarci a numerose gare di appalto dove il discrimine prezzo la fa da padrone. Tagliati fuori da un sistema economico pensato per i "più grandi", ci siamo costantemente rimboccati le maniche per differenziarci in quel che ci riesce meglio, le nostre eccellenze. Per lo meno, su quelle che ancora battono bandiera tricolore.

REDAZIONE CENTRALE