A quasi un mese dalle elezioni regionali e dal referendum costituzionale, incrociando per la prima volta l’analisi dei dati elettorali con i dettagliati sondaggi pre-elettorali elaborati da CISE-Winpoll, si ottengono indicazioni utili – e di una qualche originalità rispetto al racconto mediatico prevalente della vigilia – su quel voto del 20-21 settembre. Si scopre, per esempio, che il referendum per la riduzione del numero di parlamentari non ha dato luogo a un voto "polarizzato".

Detto altrimenti, il risultato finale (69,5% per il Sì, 30,4% per il No) non è dovuto a categorie di elettori schierate massicciamente per il No e altre massicciamente per il Sì, le une contro le altre armate; è invece sostanzialmente dovuto ad alcune categorie che si sono divise quasi a metà tra il Sì e il No, combinate con altre in cui c’è stata invece una nettissima prevalenza del Sì. La divisione netta tra gruppi sociali è stata insomma più enfatizzata dai media e sui social di quanto non sia testimoniato dai dati di sondaggio. Il risultato referendario, come spesso accaduto nella storia dei referendum del nostro Paese, è stato caratterizzato da un consenso trasversale all’opinione pubblica.

Allo stesso tempo il risultato delle elezioni regionali è in gran parte spiegabile con il buon (o cattivo) governo locale più che con approcci ideologici da parte degli elettori. (Per i dati completi e le considerazioni più approfondite su questi primi due punti, rimandiamo al nostro Policy Brief per la School of Government della LUISS). Detto ciò, la consultazione elettorale del 20 e 21 settembre ha avuto anche alcune alcune conseguenze di medio-lungo termine per gli schieramenti politici nazionali. Le attese maggiori erano per la prestazione dell’alleanza di centrodestra e in particolare del suo principale partito, la Lega.

Almeno tre le "prove" alla quali era atteso il leader leghista Matteo Salvini.

a) Le elezioni regionali in Toscana, prima di tutto. Il cambio al vertice della "Regione rossa" per eccellenza non è riuscito; la candidata della Lega e del centrodestra, Susanna Ceccardi, si è fermata al 40,4% dei consensi, mentre il candidato del Pd e del centrosinistra, Eugenio Giani, ha raggiunto il 48,6%. La mobilitazione dell’elettorato "contro" un eventuale sorpasso della Lega, specie negli ultimi giorni di campagna elettorale, è stata molto intensa e in definitiva vincente. La Lega dunque non continua a dilagare senza ostacoli dal Nord verso il Centro; eppure non si può nemmeno parlare di débâcle per Salvini, considerato che in questa Regione – storicamente "rossa" – la Lega si è aggiudicata comunque il 21,7% dei consensi. Fino a qualche tempo fa, anche percentuali ben più basse dell’ex partito nordista erano state considerate senza precedenti. Ciò che appare chiaro è che il ruolo della Lega come attore pivot del centrodestra (di fronte al declino di Forza Italia) non è scomparso.

b) La performance della Lega al Sud era l’altra prova alla quale era atteso Salvini. Come è andata? Sia in Campania che in Puglia, dove il centrodestra ha perso, i candidati Presidenti non erano stati indicati da Salvini ma rispettivamente da Forza Italia e Fratelli d’Italia. Inoltre, sia in Puglia che in Campania la Lega è rimasta davanti, in termini di consensi, rispetto a Fratelli d’Italia che a sua volta ha superato Forza Italia. Negli scorsi giorni la città di Catania, sede del processo a Salvini per il caso della nave Gregoretti, è stata scelta anche come sede di una tre giorni del partito, con incontri e manifestazioni. Insomma, da questo voto regionale emerge che è tutt’altro che tramontata la strategia di Salvini di trasformare la Lega in un Partito quanto più presente e radicato anche al Sud.

c) Il confronto tra Salvini e Zaia. In Veneto si giocava la Presidenza della Regione ma anche una sfida per gli equilibri interni alla Lega. Su questo fronte Salvini è uscito meno bene rispetto alle due prove precedenti. La Lista "Zaia Presidente", col suo 44,6%, ha raccolto praticamente il triplo dei consensi raccolti dalla Lista della Lega (16,9%). In generale, le tensioni competitive nel centrodestra non sono destinate a finire presto, ma Salvini – che comunque nei sondaggi nazionali veleggia ancora attorno al 25% contro il 15% di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni – è ancora leader indiscusso della coalizione.

Come però ammette dietro le quinte qualche personalità di spicco della stessa Lega, arrivati a livelli così alti di consenso "devi diventare un po’ come la DC", smettere cioè il solo stile arrembante, mostrare pragmatismo e capacità gestionale. Occorre insomma presentarsi come partito credibile di governo, avviando un dialogo con spezzoni dell’attuale classe dirigente del Paese. Salvini, che in passato non ha mancato di sfoggiare un carattere post-ideologico della sua leadership, si trova di fronte alla sfida di compiere questo salto di qualità, che però non è scontato. In questo senso dobbiamo leggere le difficoltà emerse nei ballottaggi da poco conclusi, nonché la discussione su un possibile ingresso della Lega nel Partito Popolare Europeo.

Il voto ha rafforzato la maggioranza di governo, ma fino a un certo punto; da qui l’appeal del sistema proporzionale. Il 3 a 3 alle Regionali tra centrosinistra e centrodestra (col risultato ancora aperto in Valle D’Aosta) ha consentito al segretario del Pd, Nicola Zingaretti, di rivendicare una certa tenuta sui territori, rinviando un’eventuale messa in discussione della propria leadership (a maggior ragione dopo il risultato molto favorevole nei ballottaggi comunali). Diverso il discorso per il Movimento 5 Stelle. Vero, il referendum lo ha rinvigorito – almeno mediaticamente – in quanto primo alfiere della campagna per la riduzione dei costi della politica. Ma il Movimento 5 Stelle si è confermato poco competitivo nelle elezioni locali. Al di là di fatti contingenti, in un voto tendenzialmente "maggioritario" come quello per la Presidenza di una Regione, le terze forze ne escono sempre e comunque penalizzate, specie se un’elezione è fortemente competitiva.

Una dinamica simile rischia di ripetersi a livello nazionale; infatti anche col sistema elettorale attuale, che è un sistema misto, il Movimento 5 Stelle rischia di essere svantaggiato nella competizione per i collegi uninominali, collegi che invece si aggiudicò in maniera massiccia al Sud nelle elezioni del 2018. Di qui il dilemma nella maggioranza di governo: in assenza di una linea chiara di accordi pre-elettorali (anche se hanno dato risultati positivi in alcuni ballottaggi), sia il Movimento 5 Stelle sia il Pd potrebbero avere in questa fase l’interesse ad approvare una legge elettorale dal carattere ancora più fortemente proporzionale, nel tentativo di ritagliarsi un ruolo "pivotale" in vista delle prossime elezioni politiche. Il sistema elettorale proporzionale, come noto, facilita infatti accordi post-elettorali nel caso di risultati non così netti usciti dalle urne.

di LORENZO DE SIO