Abbiamo tutti sprecato un’occasione. Abbiamo tutti perso un’estate, quattro mesi buoni, per prepararci come si deve alla seconda ondata del Covid. Da Giuseppe Conte fin al barista della più piccola città italiana e fino all’ultimo semplice cittadino, me compreso, nessuno può sentirsi esonerato dalla propria parte di responsabilità.

La corsa improvvisa del governo alle nuove restrizioni, la necessità di chiudere i locali alle 21, il sovraffollamento su metro e bus nelle ore di punta, la penuria di vaccini anti-influenzali, l’allarme dei medici per gli ospedali già sotto stress per ricoveri e terapie intensive, il sistema di tamponi e test rapidi inceppato, sono tutti indicatori di come l’Italia sia arrivata impreparata all’autunno. E dire che tutto ciò che è successo in primavera, l’esplosione dei contagi, la fila di camion militari pieni di bare a Bergamo, il lockdown nazionale, avrebbe dovuto consigliare a tutti noi un po’ più di pre-occupazione, nel senso più strettamente etimologico del termine: occuparsi prima di quello che sarebbe successo dopo.

E invece siamo arrivati a metà ottobre "inseguendo il virus e non anticipandolo", per usare una chirurgica espressione del virologo Andrea Crisanti. Certo, siamo messi molto meglio di tanti paesi, europei e non, a cominciare da quelli che reputiamo più strettamente vicini alla nostra cultura e modo di vivere come Spagna e Francia, dove il livello dei contagi, dei morti e della pressione sulla sanità pubblica è enormemente superiore al nostro. Però il confronto comparato, pur utile, non può essere una consolazione autoassolutoria. Ci stiamo rendendo conto che ci sono tante criticità che pur facilmente prevedibili non sono state previste.

Perché il sistema dei tamponi è andato in crisi nel momento in cui si è passati da una media di 50mila al giorno a una di 100mila, nonostante tanti virologi avessero predetto che quest’autunno ci sarebbe stato un boom di richieste? Che fine ha fatto il piano da 300mila tamponi al giorno che Crisanti ha consegnato al governo? Perché il via libera ai test rapidi è stato dato solo un paio di giorni fa? E quanti giorni dureranno i 5 milioni di test veloci tanto strombazzati da Arcuri? Perché tante regioni, soprattutto al Sud, si sono "addormentate", come denunciato dal consulente del ministro Speranza, Walter Ricciardi? Perché queste regioni non si sono preparate adeguatamente a un aumento di ricoveri e terapie intensive?

Come è possibile che a Milano, e in Lombardia, scarseggino i vaccini anti-influenzali? Come è possibile che nessuno, fra Stato e Regioni, abbia realizzato che autorizzare 80 persone su un bus invece che 100 non avrebbe risolto il problema del sovraffollamento nelle ore di picco? Come è possibile che i gestori di bar e piccoli locali non abbiano attrezzato i propri esercizi per evitare assembramenti e soprattutto l’inevitabile chiusura davanti a un più che prevedibile ritorno del virus? Come è possibile che i sindaci non abbiano intensificati i controlli nei luoghi della movida quest’estate? Eppure è successo, siamo arrivati impreparati all’autunno. E qui, davvero la colpa è da spartire fra tutti.

Responsabile è il premier Conte, i suoi ministri, le Regioni, certo. Ma forse siamo responsabili anche noi, che abbiamo vissuto i mesi da giugno a settembre come un enorme sospiro di sollievo collettivo, basti ricordare le immagini delle spiagge affollate, dei lungomari colmi, delle discoteche e dei vari Billionaire di nuovo a pieno regime, almeno fino a quando il governo, dopo Ferragosto e quindi a buoi già scappati, è corso ai ripari. Insomma, un’estate in cui è andata in scena una fantastica rimozione collettiva, quasi ad esorcizzare un ritorno del virus che alla fine c’è stato ed era pressoché inevitabile. Purtroppo ora siamo di nuovo in emergenza e tocca inseguire il Covid, pure con un certo affanno. Destino ineluttabile di chi, scomodando Esopo, ha preferito il canto fugace della cicala al lavorio preventivo della formica.

GIANNI DEL VECCHIO