La crisi del Movimento Cinque Stelle è anche la conseguenza della fine della spinta propulsiva di alcune idee "fondanti", prese in prestito (in verità un bel po’ copiate) in modo distorto dalle idee del costituzionalista francese Dominique Rousseau, teorico della "democrazia continua", dal quale il Movimento sembra aver tratto ispirazione anche per il nome della piattaforma utilizzata come assemblea "social" deliberativa (e non già dal filosofo del ’700 Jean-Jacques Rousseau). Varie le idee "ispirate" dalle riflessioni del docente francese.

Il limite dei mandati elettivi consecutivi (per Rousseau nel numero di tre), principio fatto proprio dal Movimento all’inizio come limitato a due mandati, poi esteso a tre con l’imbarazzante "mandato zero". L’estrazione a sorte, pensata per la composizione di assemblee "propositive" dei cittadini, è stata utilizzata per proporla (anche se forse solo come boutade) addirittura per la scelta dei parlamentari in luogo dell’elezione. La regola della pubblicazione, intesa dal costituzionalista francese come il diritto dei cittadini di venire a conoscenza dei controlli effettuati sulle dichiarazioni di interesse e di attività che i politici devono consegnare, è diventata una mera rendicontazione delle spese, però con regole elastiche a seconda dei rapporti di forza del politico interessato.

Il "contratto di legislatura", visto da Rousseau come impegno di chiarezza, durata e responsabilità politica, con gli elettori chiamati a decidere in caso di conflitto, è stato utilizzato come un banale strumento attraverso il quale poter sostituire uno dei contraenti-forze politiche dopo un conflitto politico (senza consentire ai cittadini di decidere). L’assemblea sociale con potere deliberativo, per Rousseau strumento per consentire ai corpi intermedi e alla società civile la partecipazione all’elaborazione della legge, è stata maliziosamente trasformata in una assemblea "social" deliberativa (da remoto) di parte, denominata "piattaforma Rousseau", gestita in modo alquanto discutibile soprattutto perché utilizzata senza possibilità di discussione e di confronto pubblico. Purtroppo non è stata ripresa un’idea molto interessante del costituzionalista francese per sottrarre al governo il tema della giustizia: la eliminazione del Ministero della Giustizia.

Trasformato nel "Ministero della Legge", sarebbe incaricato solo di controllare la qualità redazionale e giuridica dei disegni di legge che sarebbero poi sottoposti alla discussione parlamentare, e soprattutto la loro conformità alla costituzione, alla legislazione europea e ai trattati internazionali. Secondo Rousseau perché la giustizia sia tale deve mantenersi alla giusta distanza dai conflitti, avere presente l’importanza del tempo e dello spazio nell’azione del giudicare, e soprattutto deve essere al riparo dalle passioni. Per queste ragioni la Giustizia non può essere gestita in alcun modo dal governo.

Ed è proprio su questo tema che si annida, in realtà, la grande crisi del Movimento Cinque Stelle: la giustizia, da sempre cavallo di battaglia nelle loro (perenni) campagne elettorali e nella continua concessione di patenti di legalità o di illegalità. Nel momento in cui si sono dovuti assumere responsabilità di governo, i leader dei 5 Stelle si sono scontrati con l’inefficacia del populismo penale nel sostituire l’azione politica di governo. Non si possono risolvere i conflitti – spesso creati proprio da chi si pone come il loro risolutore - o i problemi sociali attraverso il diritto o il processo penale, contro-riformandoli in senso autoritario, né questi ultimi possono essere intesi come strumenti pedagogici attraverso i quali insegnare il rispetto della legalità.

Così facendo si entra in un gioco senza fine in cui si insegue ogni singolo episodio di cronaca giudiziaria introducendo inutilmente pene più severe, nuovi reati, eliminando garanzie processuali, senza risolvere in alcun modo le cause del conflitto o del problema sociale, e senza neanche attenuarne le conseguenze. La gara a chi è più puro prevede sempre, per citare Nenni, l’arrivo di qualcuno "più puro che ti epura". Il terribile (a tratti grottesco) processo mediatico a cui è tuttora sottoposto il ministro Bonafede, sul caso della mancata nomina al DAP del Dott. Di Matteo e sul caso delle scarcerazioni di alcuni detenuti durante l’apice della pandemia, avrebbe dovuto portare lo stesso ministro e il Movimento a riflettere sulle pericolose conseguenze del populismo penale e del giustizialismo mediatico, che alla fine si ritorcono sempre anche contro chi li utilizza come mezzo di inseguimento e di aggregazione del consenso.

Invece, tra le ragioni di questa loro crisi, e tra le proposte per uscirne, l’argomento "giustizia" non compare. Proprio Rousseau, nei suoi scritti, ricorda come Cicerone nel De Re Pubblicadistingua tra la folla - una riunione di individui - e il popolo che "si costituisce unicamente se la sua coesione è conservata da un accordo giuridico". E se il popolo non si costruisce con un accordo sul diritto, si aggrega in gruppi che si riconoscono in altri legami o accordi emotivi, con la creazione di categorie da mettere all’indice per aggregare ("i prescritti", "i condannati", "i corrotti", "i mafiosi").

La giustizia non può essere utilizzata come strumento riunitivo di aggregazioni emotive, attraverso, inoltre, la facile (e anche un po’ banale) tecnica della "squalificazione della comunicazione", utilizzata per invalidare qualsiasi argomento altrui senza entrare nel merito. Il Movimento Cinque Stelle non passerà dall’essere una folla politica all’essere un popolo politico, con capacità di governo e di auto-strutturazione politica, finché non avrà fatto i conti con la propria concezione della giustizia. Se non lo farà, il "vaffa", tanto gridato agli avversari politici nelle fasi iniziali della sua parabola, lo porterà a compimento contro sé stesso.

GIORGIO VARANO