Le immagini stereotipate che in Occidente abbiamo del Giappone, ci rimandano immediatamente (e in tempi di pandemia) a tanti cittadini che invadono le strade delle grandi metropoli del Sol Levante indossando la mascherina. Diciamoci la verità, per anni abbiamo strizzato l’occhio e ci siamo dati di gomito, banalizzando l’importanza di questa abitudine e ritenendola, in percentuale, più una moda che una reale necessità. Oggi, probabilmente, ci dobbiamo ricredere. E non solo sull’uso di questo dispositivo di protezione. Perché il coronavirus ci ha traghettato in un baleno in tante delle abitudini nipponiche che credevamo impossibili in Italia. Il contatto, ad esempio. Avremmo mai pensato di arrivare al punto di vietarci un abbraccio, un bacio, una stretta di mano? Probabilmente no. Eppure eccoci qui a salutarci con un solo sorriso a un metro di distanza come fanno i giapponesi (loro in realtà fanno un piccolo inchino, ndr). Per non parlare dell’igiene e della pulizia: improvvisamente su scaffali di supermercati e negozi al dettaglio sono comparsi spray e salviette di ogni tipo. Un’attenzione (e una manìa probabilmente dettata anche dal consumismo sfrenato) che nei giapponesi è quasi un’ossessione. Chi ha avuto il privilegio di godere delle bellezze del Giappone sa bene di cosa parlo. E ancora lo sviluppo delle tecnologie che invadono non soltanto la sfera lavorativa, ma anche e soprattutto quella dei rapporti interpersonali. Gli incontri via chat, che in Giappone sono consolidati da tempo, stanno soppiantando anche da noi i più consueti caffè al bar, bicchieri di vino nei locali, conoscenze nelle discoteche. Insomma ci stiamo "giapponesizzando"? Resisteranno queste abitudini anche alla fine della pandemia? Shino, giapponese da oltre 18 anni in Italia, non la pensa proprio così. "Ci sono delle consuetudini e dei costumi che appartengono alla radice più profonda della nostra cultura. Da noi, in Giappone, indossare la mascherina o non tossire in pubblico non è soltanto una forma per evitare il contagio di un virus, ma di profondo rispetto dell’altro". Lo stesso si dica per la mancanza del "calore mediterraneo": "Non siamo abituati ad abbracciarci, neanche in famiglia. Per noi è una costrizione, non ci viene naturale". Così è anche per il silenzio surreale che rimbomba per le strade e sulle metropolitane di Tokyo, dove parlare (o peggio mangiare) è segno di grande maleducazione. "Quello che voglio dire", ci spiega bene Shino, "è che in Giappone non è l’emergenza a dettare certe regole, ma il sangue!". Emergenze che pure ci sono state e ci sono: "E non penso solo alle grandi pandemie. Abbiamo avuto la Sars, l’H1N1, certo. Ma non dimentichiamoci che siamo isolani alle prese con terremoti e tsunami, siamo abituati e conviviamo con l’emergenza da sempre". Dalle parole di Shino, si deduce che la risposta alla nostra domanda è: no, non ci stiamo giapponesizzando. Come è ovvio, per acquisire usi e costumi di una cultura millenaria come quella nipponica (e come anche quella mediterranea) non basta qualche mese di pandemia. "Si possono però fare proprie alcune buone abitudini. Io anche cerco di farlo con le vostre da quando sono in Italia", ci dice con un sorriso Shino, che da anni convive con questa dualità: "In Giappone per anni abbiamo saputo molto poco di quel che accadeva al di fuori della nostra terra. Non ci rendevamo conto di quanto la nostra cultura fosse diversa dalle altre e non è facile cambiarne alcune caratteristiche". Perciò, con ogni probabilità, sarà difficile anche per noi. E di sicuro al termine dell’emergenza torneremo ad abbracciarci e ad invadere le strade con la nostra "confusione", come è giusto che sia. Ma con una consapevolezza in più: che nell’era della globalizzazione, guardare alle abitudini del "vicino" (o "lontano") più esperto, è senz’altro elemento di crescita personale e collettiva.

LINDA VARLESE