La libertà personale è cosa seria, forse la più seria di tutte, ma il Governo continua a limitarla con atti che si pongono fuori dal seminato costituzionale, dimostrando, così, di averne scarso rispetto. La sta svuotando dall’interno con un comportamento che solo apparentemente non infrange il dettato costituzionale. In parole semplici, per fare uscire l’acqua dalla bottiglia non rompe il vetro, ma usa una cannuccia trasparente. Il risultato finale non cambia, ma è probabile che alla fine nessuno si accorga che l’acqua non c’è più, se non quando monterà la sete. Guardiamo cos’è accaduto. Il 7 ottobre il Governo ha approvato un decreto legge e poi, il 13, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha adottato un suo decreto, il famoso Dpcm. Scopriremo tra breve il legame tra questi due atti.

Fermiamoci per ora sul Dpcm. Anzitutto stupisce e preoccupa che si continui a usare questo strumento con tanta disinvoltura. Stupisce, perché fu già ampiamente criticato nella scorsa primavera con argomentazioni fulminanti. La censura arrivò anche dalla presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia: "La Costituzione non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, ma offre la bussola anche per navigare per l’alto mare aperto nei tempi di crisi". E la bussola era ed è il decreto legge, un provvedimento bensì adottato dal Governo, ma sottoposto alle regole delle leggi e quindi al controllo e alla firma del presidente della Repubblica, alla discussione delle Camere, che lo possono modificare, convertire o non convertire in legge, e al controllo eventuale della Corte costituzionale. Questo corredo di garanzie, che sono anzitutto politiche ancor prima che giuridiche, non accompagna il decreto del presidente del Consiglio, che, per di più, è individuale.

Allo stupore, come detto, si somma la preoccupazione, perché il comportamento del Governo si traduce in strisciante violazione delle regole fondamentali dello stato di diritto, violazione che può costituire un precedente molto pericoloso per le libertà individuali. Considerato che i padri costituenti respinsero espressamente lo strumento della sanatoria parlamentare degli atti adottati illegittimamente dal Governo in situazioni d’emergenza, il così detto bill d’indennità presente negli ordinamenti anglosassoni, l’esecutivo è corso ai ripari per non continuare a essere accusato di calpestare la Costituzione. La toppa, però, è stata peggiore del buco. Pur avendo formalmente seguito l’indicazione dianzi ricordata, facendo precedere il Dpcm da un decreto legge, nella sostanza ha finito per peggiorare la distorsione delle regole: il decreto legge non disciplina, se non in termini generalissimi, le limitazioni alle libertà; dispone piuttosto che a questo fine sia il presidente del Consiglio, ossia lo stesso potere esecutivo, a emanare un decreto.

Insomma, è successo questo. Il Governo, con il decreto legge, si è auto conferito pieni poteri, così da poter limitare le libertà personali con un successivo provvedimento del presidente del Consiglio, in sostanziale e totale autonomia. Qui sono in discussione non tanto l’aspetto tecnico, che pure ha grande rilievo di fronte a una Costituzione rigida, quanto i profili politici di un simile comportamento. Il primo, immediato, attiene al "salvagente" che in questo modo il governo ritiene di essersi lanciato per garantirsi la legislatura. Il secondo, ben più importante, riguarda lo svilimento delle funzioni del Parlamento e della democrazia collegiale, a favore di una forma di democrazia "del capo" mascherata da parlamentare. Il segno più evidente che questa sia la direzione imboccata è la dichiarazione resa nei giorni scorsi da Giuseppe Conte a proposito delle feste in casa: "Non manderemo le forze di polizia nelle abitazioni private".

Ecco, questo è il punto di non ritorno della cultura liberticida sposata, così sembra stando a queste dichiarazioni, dai partiti di maggioranza: è il Governo e il suo presidente che, per benevola concessione, non dispongono l’intervento della polizia nelle abitazioni; intervento, tuttavia, che, se volessero, potrebbero prevedere. Per grazia di Dio e volontà della nazione, prima di Conte ci sono stati Giorgio La Pira, Lelio Basso, Umberto Tupini, Umberto Terracini, che nell’art. 14 della Costituzione scrissero, nero su bianco, che "il domicilio è inviolabile", sottraendo così l’Italia da qualsiasi aspirazione dispotica, rossa o nera che fosse. Aspirazione, però, che non molla la presa, a quanto pare. Infine, la compressione delle libertà con un provvedimento del capo del Governo fonda un precedente pericolosissimo. Le limitazioni potrebbero essere ripetute e appesantite anche per situazioni diverse da quella attuale, magari di sicurezza nazionale e magari create a bella posta dal leader di turno per distorcere ulteriormente i princìpi democratici. Questo è il cuore del pericolo e di qui nasce il nostro intransigente dovere di sorveglianza.

Alessandro Giovannini