Diego, Dieguito, pibe, Peter Pan, guaglione e corazòn, guastafeste e ribelle, artista bombastico, gioia degli occhi e miele sul cuore, gaudioso e gaudente, altare e polvere, delizia e perdizione, insomma tu, sempre tu,​ El Diez, messaggero in terra degli dei del pallone.
Sessanta. Sbàm! Sessanta anni in questa data del 30 ottobre da tenere a memoria come il 476 della caduta dell’impero romano d’occidente e il 5 maggio di Napoleone.​
Caro Diego, per festeggiarti, noi del golfo azzurro con l’ingegnere Ferlaino e i paladini del​ Te Diegum siamo​ andati in paranza in Piazzetta Nilo davanti al tuo capello racchiuso in una teca, poi ai Quartieri Spagnoli davanti al gigantesco murales dei tuoi riccioli neri e, infine, al Campo Paradiso dove ti allenavi e non c’è più niente, solo macerie nell’alveare di Soccavo.​
E che saranno mai sessanta anni per te che ti sei presentato due volte davanti al Barba e il Barba non ti ha voluto “perché sicuramente non ho fatto male a nessuno” dicesti in quei giorni drammatici a Punta del Este, gennaio 2000, e a Buenos Aires, 2007, quando l’emittente bonaerense “Cronica Tv” dette precipitosamente la notizia della tua morte,​ corna e bicorna, aglio e fravaglio.​
Come stai? Come stai? Dove sei? Dove sei? L’ultima tua immagine è a bordo-campo a La Plata, sulla panchina del Gimnasia,​ entrenador, i capelli rasati ai lati e una gran cresta sulla cima, ultimo mohicano, ti mancava anche questo.​
Era passato sui social il filmino gravemente smargiasso del tuo ballo a deretano sguainato con Veronica Ojedo sulle note del “Bombon Asesino” dei Los Palmeros (“Ella se agita, toda la noche mueve la cintura”). Mannaggia a te!​
Sessanta anni e vogliamo ancora raccontare la tua storia, la nostra storia, la tiritera dei gol di incantesimo, il Mondiale e gli scudetti, i pomeriggi di gloria e le notti bianche, il San Paolo e la Cachassa,​ Maradona è meglio ‘e Pelè, e la casa in via Scipione Capece, sulla collina di Posillipo, che ora è muta e anonima, e non ci sono più le tue cinque automobili che facevano infuriare il coinquilino Ciro Ferrara che non vi trovava posto per la sua utilitaria?​
Ma, no! Quei nostri anni Ottanta fra Bassolino, Pomicino, Bocchino e Peppino di Capri, Pino Daniele, Troisi e la città in delirio con un nuovo Masaniello (“ma non fatemi fare la sua fine” dicesti) lasciamoli nella soffitta della nostalgia. I ragazzi d’oggi ci ridono dietro se ricordiamo​ quanno ce dicisti sì ‘na sera ‘e luglio.​
Napoli non è più la stessa, caro Diego. Fatalista senza più un sogno.​ C’è rimasto sulo ‘o mare che è lo stesso ‘e primma, chillu mare blu. Il campionato va fra tamponi e protocollo, contagi e tavolini. Il presidente De Luca ci minaccia con i lanciafiamme.​
Ferlaino va per i novanta, ma è sempre pronto a ballare il samba con Roberta Casson. Non c’è più il “Sarago” di Nando Pennino che ti riservava sempre un separè e una pizza. Si va in monopattino e si esce poco la sera. È arrivato il ragazzo nigeriano spruzzato di biondo in testa, ti piacerebbe, ha la velocità di Careca e il tocco di Bruno Giordano.​
E gli anni passano, i bambini crescono e la barba di Aurelio imbianca. Ci strapazzano sempre, città che vale eternamente un oltraggio,​ ma che parlamm a fa’ sempre de stesse cose pe nce ‘ntussecà.​
Paolo Sorrentino sta girando in città un suo film intimista intitolato “È stata la mano di Dio”. Ciro Ferrara ha appena pubblicato il suo libro “Ho visto Diego”. Amazon ha appena finito di produrre la miniserie “Maradona, sueño bendito”, sogno benedetto. Gira e rigira, sei sempre tra noi,​ Maradona Maradò, Sangennarmando e paparacchiò.​
Pare che abbiano trovato in un pollaio, a Buenos Aires, la Fiat 128 bianca, la tua prima automobile quando corteggiavi Claudia Villafanes e andavi alla Bombonera a vedere il Boca con papà Chitoro.​
Rileggo appunti e aneddoti. Quando Fernando Signorini chiese al dottor Oliva: “Dottore, come devo allenare Maradona?” e il dottore rispose: “Tu hai mai visto un gatto allenarsi?”. Che tempi, Diego, oh mama, mama, mama.​ Ci batteva il corazòn. Tempi confusi, ma felici.​
Oggi viviamo tempi matematici, Cristiano Ronaldo sale a 2,52 metri per fare gol di testa alla Sampdoria, tu alla Samp, sul cross di Renica, facesti un gol di testa a pelo d’erba, gatton gattoni, un gol che fu una risata.​
Ti sei portato via la fantasia del pallone. Ora il calcio si gioca con gli algoritmi. Fra poco, a bordo-campo, gli allenatori avranno un tablet, il Virtual Coach, che gli trasmette seduta stante tutti i dati della partita. Penso a Bruno Pesaola, il caro, indimenticabile petisso, che allargherebbe la bocca a salvadanaio ridendone a crepapelle.​
Così vanno le cose, vecchio ragazzo. Sessant’anni. Il 30 ottobre. Il giorno del 1922 in cui Vittorio Emanele III dette a Mussolini l’incarico di formare un governo.​
Il giorno del 1938 quando Orson Welles seminò il panico in America inventandosi per radio lo sbarco dei marziani.​
Il giorno del 1974 della notte di Kinshasa, nello Zaire, e di Muhamed Alì che mise kappaò George Foreman.​
Il giorno del 1960 a Villa Fiorito, bidonville di Buenos Aires, una domenica mattina alle 7,05 di mamma Tota e del primo figlio maschio, il Pelusa, dopo quattro figlie femmine, e il dottore disse: “È tutto culo e piedi”.​
Un giorno all’improvviso era nato il monarca assoluto del calcio, l’ineguagliabile e l’inimitabile, un cuore generoso e il piede sinistro magico. “El fùtbol mismo” scriverà “El Grafico”.​
Sul campo “si muove come Fred Astaire”, scriverà Peter Green sul “Sunday Mirror”. “Le gambe verniciate di fresco” scrisse Jorge Valdano dopo il gol del secolo all’Inghilterra, “ora e sempre il calcio ha detto tutto”.​
Ed Eduardo Galeano: “​ Grazie per i tuoi gol ai potenti”. Gianni Di Marzio, volando da Mergellina a Buenos Aires per il Mondiale 1978, imbeccato da un ingegnere di origini calabresi, Settimio Aloisio (“Ti devo far vedere un ragazzo fenomenale, non ha ancora 18 anni”), andò su un campo in terra battuta e scoprì Diego Armando Maradona, il prodigio dei prodigi, rivelandolo al mondo incredulo.​
Buon compleanno, pibe. La tua storia fantastica ce la raccontiamo ancora quando spunta la luna a Marechiaro, e sempre ce la racconteremo. Perché la nostra canzone, Diego, è sempre quella:​ oj vita ... si’ stato ... ‘o primmo e ll’urdemo. Singhiozzano d’emozione i tuoi soldati innamorati.
MIMMO CARRATELLI