di Pietro​ Salvatori

C’è Francesco Boccia che dice una cosa lapalissiana: “Il Natale dipenderà dall’epidemia”. C’è Giuseppe Provenzano che la dice più secca: “È inopportuno che il governo parli del Natale”. Poi c’è Giuseppe Conte che ha evidentemente deciso che oltre ad avvocato si sente anche padre del popolo italiano che comunque non rinuncia al legalese e sprona a “predisporci” a “un Natale più sobrio”. Quindi sì fichi secchi e no datteri, torrone solo se con cioccolato amaro, panettone e non pandoro che lo zucchero a velo fa troppo aria di festa.

 

La preoccupazione del governo su quel che succederà durante le feste è legittima. Nel lessico da dpcm che ha divorato la ricchezza del vocabolario italiano ma che se non usi al thè con gli amici (rigorosamente via Zoom) sei quello fuori dal mondo, nel periodo di Natale la gente tende ad “assembrarsi” maggiormente, le “occasioni di socialità” in “luoghi privati” si moltiplicano, i “ristori” di cui potrebbero godere le imprese con gli acquisti per i regali sono un tema non trascurabile per un’economia allo stremo, il diritto alla libertà di culto è una cosa che può far storcere il naso ma a livello costituzionale è un’elemento con il quale le istituzioni dovrebbero fare i conti.

 

A questa preoccupazione un governo dovrebbe rispondere con studi, dossier, confronti politici che portino all’elaborazione di un piano di misure concrete che tengano conto della particolarità del periodo solo come uno tra gli elementi di un quadro in cui il virus è piuttosto disinteressato al calendario: che sia il 21 ottobre, il 18 novembre o il 25 dicembre poco gli cambia. Dovrebbe rispondere con un “dipenderà dall’epidemia”, o meglio con un “è inopportuno parlarne”. Lo sarebbe comunque, inopportuno, lo è a maggior ragione dopo aver sfornato tre dpcm in tre settimane, averli comunicati con annunci di conferenze stampa mezzo’ora prima che si tenessero, aver costruito un sistema di 21 parametri che alla prima applicazione (doveva essere un venerdì), sono andati in tilt, lasciando imprese, commercianti e semplici cittadini nell’incertezza più assoluta per giorni e giorni. Che diamine di programmazione si può assicurare da qui a settimane se non mesi?

 

E invece il Natale nella narrazione di Palazzo Chigi ha smesso praticamente da subito di essere un problema politico, di ordine pubblico, di economia e fatturato, di sanità alle corde. È diventato ben presto una faccenda del buon papà Conte a dare buffetti e alzare ditini nei confronti di noi tutti, figli scapestrati e turbolenti.

 

Si è partiti con la rumba addirittura in 14 ottobre, settanta giorni prima del D-Day, settimane prima il terzo e poi il quarto dpcm della seconda ondata, senza che nessuno capisse nulla di quello che sarebbe successo di lì a qualche giorno, governo in primis. E si è partiti con una dichiarazione incredibile: “Non si può pensare che ci sia il governo che risolve i problemi, durante la prima ondata li abbiamo risolti e abbiamo dato merito a tutta la comunità nazionale”. Come se la gestione di questo paese fosse una questione di educazione e bon ton, mica politica, ci mancherebbe. Ecco spuntare il Natale: “Non faccio previsioni per Natale, ma molto dipenderà dal comportamento di tutti”. Se fate i bravi vi daremo le caramelle, nella calza della Befana niente carbone.

 

Bastava già così, probabilmente. Però la promessa di non fare previsioni è stata tradita nel giro di una decina di giorni. Conte, seduto a capo tavola di tutte le case degli italiani, il 25 ottobre anzitutto prevedeva che “con questo quadro di misure confidiamo di poter affrontare più distesamente il mese di dicembre”. Rileggere queste parole oggi sarebbe esilarante se non fosse sconfortante, visto che quel “quadro di misure”, evidentemente tutt’altro che sufficienti, è stato sbaraccato appena una settimana dopo, con il famigerato decreto che ha diviso l’Italia in fasce. Poi aveva aggiunto: “Vorremo arrivare al Natale con predisposizione d’animo serena”. Qualunque cosa significasse, il premier padre con nozioni di psicologia rassicurava con un buffetto la Nazione: il governo lavora indefessamente, non tanto per risolvere la situazione, ma per il vostro stato d’animo, che è la cosa che ci sta più a cuore. Anzi, a fino ottobre che felicità sentire che “potremo tutti abbracciarci e fare feste e festicciole”, termine quest’ultimo che non ci stupirebbe veder definito in un articolo del dpcm prossimo futuro, con commi fino alla lettera Z per definire casi ed eccezioni per cui una festicciola è una festicciola, non un festone, un party, non una piccola ma nemmeno una grande festa.

 

L’impossibilità di fare previsioni si è dunque trasformata nella possibilità di prevedere festicciole. Ma forse l’impossibilità aveva più senso, visto che passano altri dieci giorni e la previsione cambia ancora. Il 7 novembre scopriamo che le festicciole che abbiamo così ardentemente bramato non ci saranno più. Non solo, il premier stabilisce anche regole d’ingaggio che debbano essere chiare a tutti prima di affrontare lo spinoso tema degli antipasti: “Non avremo un Natale di baci e abbracci, cenoni e tombolate”. Dal dpcm con le renne scompare così il laborioso articolato sulle festicciole, ne entra uno ancora più complicato su cosa sia un cenone, da non confondere con la più semplice cena, per l’evidente disparità di avventori e mise en place, e quali giochi si possano fare dopo il dolce, perché la tombola in tre o quattro non ha senso, meglio una briscoletta.

 

Passa un’altra settimana, più o meno, e arriviamo a ieri. Il Natale è diventato evidentemente un’ossessione comunicativa per il premier, che nel frattempo ha rassicurato grandi e soprattutto piccini che Babbo Natale avrà un permesso speciale per circolare, da lui generosamente concesso, e ci rende edotti della richiesta del piccolo Tommasino anche pubblicando sul canale di YouTube della Presidenza del consiglio la formidabile intervista all’estensore della missiva a Barbara D’Urso, con Rocco Casalino a spammarla sui social per fugare i dubbi sull’esistenza di quella lettera, come se il problema fosse la domanda e non la risposta pubblicata su Facebook con ideale sottofondo di jingle bells. Arriviamo ieri, dunque. Conte reintroduce la categoria attitudinale della “sobrietà” nei festeggiamenti, e il timore è che diventi anche una categoria giuridica da definire nelle prossime strette. Poi spiega quel che sarà vietato: “Baci, abbracci, festeggiamenti, festoni e festini”, lasciando aperta qualche speranza per la tombola, che magari in pochi viene pure bene.

 

Quasi ci si potrebbe abituare, alla lunga, a questa litania infinita, tutta proiettata sul Natale perché si è buoni e gentili, e poco importa se nella narrazione scompaia il festaiolo Capodanno, che gli assembramenti del 31 dicembre se ne può fare a meno anche senza il manto di retorica. Se non che il premier avvocato e padre del paese decide che forse non basta, che bisogna andare oltre. Ecco dunque il presidente padre spirituale, mistico e custode della dottrina che ammonisce che il Natale “è anche un momento di raccoglimento spirituale, quindi farlo con tantissime persone non viene troppo bene”. Qualunque caspita di cosa tutto questo significhi.