Come ve lo spiego che cosa significa, essere calabresi? Anche perché io stessa non sono sicura di averlo ancora capito bene, dopo tanti anni. Ha certamente a che fare con un modo di percepirsi, e con una serie di modelli così contrastanti da sembrare impossibile che stiano nello stesso posto, condividano lo stesso luogo che poi è estremo in partenza, con tutte quelle coste e quelle montagne, quel modo di essere aperti e dannatamente chiusi, più isola ancora della Sicilia dirimpettaia. C’è chi ci scherza, e dice che le isole maggiori italiane sono Sicilia, Sardegna e Calabria, e ovviamente dice una serissima verità.

 

E non è vero che​ questo isolamento​ sia finito, solo perché le comunità sono ridiscese sulle coste e hanno gli stessi centri commerciali e connessioni Internet del resto d’Italia (ma non ancora le stesse strade, e non ancora gli stessi ospedali...). Non è vero che non aleggi questa separatezza, questa percezione della differenza che a volte si colora d’orgoglio, a volte di disperazione.

 

Come ve lo spiego che la Calabria è quella di Riace, ma la Riace di prima e di dopo: la Riace di Mimmo Lucano e la Riace di Antonio Trifoli. La Riace di Cosma e Damiano, santi migranti e taumaturghi che curavano tutti senza prendere denaro da nessuno: oggi forse avrebbero detto loro che “non abbiamo bisogno di missionari”.

 

E la Calabria dei caporali di Rosarno, delle baraccopoli governate dalle mafie, dove vivono, ma spesso muoiono, i “negri” – epiteto orgogliosamente​ rivendicato dall’attuale governatore, sia pure facente funzioni (ma comunque era assessore alla Cultura e vicepresidente, mica era un passante) Antonino Spirlì.

 

Ecco, come ve lo spiego che ci sono la Calabria di Lucano e la Calabria di Spirlì, e sono opposte tra loro e inconciliabili, ma infine sempre vicine e gomito a gomito, vicine di ruga (la stradina dei paesi), di banco, di corsia. La Calabria degli ospedali “accorpati”, che è una cosa che ha un senso se poi allarghi la medicina al territorio, se il tuo progetto è la salute della comunità e non la gestione della malattia.

 

Ci sono una quantità di spettri, in Calabria: ospedali vuoti, fabbriche sulle cui ciminiere hanno fatto i nidi le gru (che è cosa magnificamente poetica, ma allora puntiamo da subito sulle gru e inventiamoci l’industria della natura e della gru invece di accontentarci dei nidi sulle rovine). Ci sono una quantità di “non finiti”, in Calabria: li vedi subito nelle palazzine senza intonaco, nei quartieri senza opere di urbanizzazione, nelle strade senza asfalto, ma quelli che non vedi sono molto peggiori, stanno nelle carte, nei progetti abortiti ma finanziati, nelle truffe, nelle cose annunciate e mai decollate, nei finanziamenti non usati e spariti.

 

C’è un gran quantità di “non detto”, in Calabria: perché non si può dire, perché tutti lo sanno ma nessuno può dirlo, perché lo sappiamo ma non abbiamo le prove. Ci sono economie ferree che governano con efficienza asburgica interi quartieri, dove non si vende una mela, una siringa, un caffè che non sia perché qualcuno ha stabilito quale merce e chi e a che prezzo deve venderla. E lo spaccio della droga è solo la parte visibile – nemmeno la più atroce e pericolosa – di questo mercato profondo.

 

E c’è una Calabria che invece vive, investe, studia, lavora, scrive malgrado quell’altra, quel fantasma doppio come la Fata Morgana dello Stretto. Ma non può non subirla, non incontrarla, non doverla guardare, anche quando non la vede o non sa riconoscerla (e ci sono un sacco di calabresi in buona fede, quando dicono che “non conoscono mafiosi” e la ’ndrangheta nemmeno la vedono: credetemi, lo dicono davvero).

 

È il paradosso di vivere in Calabria: la Calabria che rivendica orgogliosa e che poi quando fa da sola si caccia nei vicoli ciechi e dice che è stata lasciata sola. La Calabria che si fa incantare dalle sirene (stanno lì anche loro, dopotutto, nello Stretto, e cantano da millenni). La Calabria che resiste, perché a volte anche solo una normale vita quotidiana, qui, è una forma estrema di resistenza. La Calabria che collude per debolezza, per incapacità, per antica sottomissione, e la Calabria che si ribella ma non abbastanza.

 

La Calabria che se ne va, la Calabria che parte per i “viaggi della speranza”, che sono piuttosto “viaggi della certezza”: so già che è meglio partire (a chi di noi non è capitato, poi, di incontrare in un ospedale del Nord un luminare calabrese pure lui, e guardarsi e riconoscersi, medico e paziente, specchiarsi l’uno nell’altro, nella fuga di entrambi, ed entrambi per ottime ragioni).

 

No, non posso spiegarvi nemmeno un certo orgoglio che sembra folle, da fuori, un parlare sempre di splendori così antichi da essere mitologici: “Il povero fugge nell’emigrazione, l’intellettuale nel passato”, diceva Corrado Alvaro. E sono forme, anche quelle paradossali, di allontanamento che non è allontanamento: gli emigranti che portano altrove il loro “paese doppio”, gli intellettuali, gli scrittori (ce n’è un sacco di potentissimi, qui e ora) che ritrovano il greco e lo parlano per parlare con le cime, le querce e le potenze ancora acquattate tra i boschi e sulle marine deserte. Per fare un appello.

 

Altri calabresi hanno indagato e indagano (penso agli antropologi più grandi: Luigi Lombardi Satriani, Vito Teti) questa ambiguità e questa stranezza, questa doppiezza e questo essere estremi, scissi, combattuti, incomprensibili da fuori e spesso anche da dentro.

 

Oggi, la Calabria è solo il luogo in cui è più facile che esplodano le contraddizioni e le assurdità di questo tempo, in cui si riveli il grottesco – che sta tra il ridicolo e il macabro – di questo tempo. No,​ non è la girandola assurda dei commissari​ o l’arresto del presidente del Consiglio regionale il vero grottesco, la vera tragedia che sembra farsa e viceversa: lo è già quello che viviamo qui da molto, molto tempo (dal 1861, dicono alcuni).

 

E come faccio io a spiegarvelo?