Un ritorno alle origini, si direbbe. Tuttavia, c’è qualcosa che non quadra, osserva Vincenzo Vita in questo articolo pubblicato anche sul Manifesto. Una delle ultime bozze della manovra di bilancio (bozze su bozze, orgoglio dei filologi) recava all’improvviso una frase apodittica. L’Istituto Luce-Cinecittà viene trasformato in società per azioni.

Un ritorno alle origini, si direbbe. Tuttavia, c’è qualcosa che non quadra. Bando agli inutili dietrismi (la verità spesso è più semplice, basta non chiudere gli occhi). Ma come mai un simile, ennesimo, rivolgimento?

Circa tre anni fa, nel luglio del 2017, il Luce scelse la strada maestra della sfera

pubblica, portando sotto le sue ali Cinecittà Studios. Precipitosamente dopo una pessima privatizzazione dai magri risultati. Nell’estate del 2012 vi fu una prolungata occupazione simbolica davanti alla storica sede di via Tuscolana di Roma. Proprio contro la cattiva gestione di un’azienda pur invidiata nell’intero villaggio globale. Un brand, come si dice, pari solo a quello delle rosse Ferrari. Lì era nata e cresciuta la straordinaria creatività del cinema italiano.

Poi il governo e il ministro Dario Franceschini corressero la rotta. Rimisero sotto l’egida pubblica una struttura così importante. Qualche speranza si riaccese e i commenti furono positivi. Anzi. Sembrava delinearsi, finalmente, una strategia industriale. Vogliosa di confrontarsi con un capitale culturale via via egemonizzato dalle piattaforme digitali. Non per contrapporsi aprioristicamente, bensì per negoziare tempi e modalità della trasformazione, riaffermando la supremazia dei contenuti sulle macchine.

Nulla da dire sull’oculata e seria impostazione data all’Istituto Luce dai suoi presidenti Roberto Cicutto (ora alla Biennale di Venezia) e – poi- Maria Pia Ammirati (transitata a Rai Fiction). Se mai, la decisione di inserire la norma nella proposta di legge di bilancio all’indomani del cambio del vertice lascia – a maggior ragione- perplessi. E aumenta qualche legittimo sospetto. Insomma, si è deciso di tornare indietro, a mo’ del gioco dell’oca, per rimettere sul mercato il tutto o, magari, una sua parte?

Sarebbe ben strano, in verità. La stagione delle sbornie liberiste sembra in fase calante, anche per i disastri che ha compiuto. Disoccupazione, precarietà, svendita del patrimonio identitario sono stati il tratto distintivo delle linee degli anni passati. Tuttora incombenti ancorché ammaccate. Ciò che appare sbagliato già nei presupposti generali adesso diviene gravissimo. Con un pericoloso indebolimento della sfera pubblica. In un sistema che vede la crescita tumultuosa (e senza adeguata regolazione) dei nuovi

oligarchi. Parliamo degli Over The Top come Google o Amazon. Ma pure delle reti di diffusione on line dei prodotti dell’immaginario. Mentre la pandemia rende inesorabile l’utilizzo dello streaming per poter fruire di film e audiovisivi. Ecco che l’infiacchimento della roccaforte pubblica può diventare devastante.

Speriamo di sbagliare e con piacere accetteremmo correzioni o smentite. Per togliere qualsiasi ombra, però, c’è una solo scelta da fare. Si stralci l’articolo in questione da un luogo normativo che dovrebbe occuparsi di economia e finanze. Per dar luogo ad uno specifico progetto. Si percorra la strada maestra di una vera riforma delle modalità di presenza dello stato nelle attività culturali. Immaginando una stretta convergenza tra la Rai e l’Istituto Luce-Cinecittà. Per costruire un polo in grado di svolgere una funzione autonoma e indipendente, senza omologarsi alle tendenze peggiori.

È in corso una forte riorganizzazione dei modelli e dei paradigmi della produzione e del consumo. Gli stessi giganti dell’era analogica stanno via via uscendo di scena. Da Rupert Murdoch ormai in crisi con Donald Trump, in poi. La medesima pagina non commendevole dell’emendamento pro Mediaset, infilato nel decreto sul Covid, è un sintomo di debolezza del gruppo.

Una visione che abbia al centro un rifondato protagonista pubblico è pure un argine alla definitiva de-materializzazione operata dagli algoritmi e dall’intelligenza artificiale. E siamo solo all’inizio. Tanto rumore per un semplice articolo di una proposta di legge? È un particolare di valenza simbolica e non solo civilistica. Gli occhi maligni leggono e capiscono i sottotesti. Per molto meno il tenente Colombo scopre l’assassino.

di Vincenzo Vita