Joe Biden è una vecchia volpe di Washington. A differenza degli ultimi quattro presidenti, Biden ha legami profondi con l'establishment, grazie ai 44 anni trascorsi in Senato e al suo periodo da vice-presidente.

Nonostante le promesse elettorali, ha nominato, nel suo transition team, almeno 40 lobbisti o ex-lobbisti. Questa scelta sembra essere in contraddizione con il fatto che, per buona parte della sua carriera, Biden ha dichiarato di volere limitare il 'potere' dei lobbisti, che negli USA, servono anche come procacciatori di finanziamenti per le campagne elettorali e per la politica, ruolo che spero venga formalmente vietato in Italia.

Per esempio, il 16 novembre, Steve Ricchetti è stato nominato Consigliere del nuovo presidente americano. Con il fratello Jeffrey, Ricchetti è stato titolare di un'importante società di lobbying e ha gestito la campagna di raccolta fondi elettorali per Biden, andando a pesca tra le società di Wall Street.

Tra i punti programmatici della sua piattaforma elettorale, Biden ha incluso delle regole che aumentino la trasparenza sugli incontri tra legislatore e rappresentanti di interessi, nel corso del procedimento legislativo di un determinato atto.

"Metterà sempre al centro delle sue decisioni l'interesse pubblico, perché vorrà rendere conto ad ogni singolo americano al servizio del quale sarà Presidente"- aveva dichiarato T. J. Ducklo, uno dei suoi portavoce.

A quanto pare l'ambizioso programma democratico di Biden, che includeva l'aumento delle tasse per le imprese, si sta già scontrando contro un 'centro di potere' che lui conosce bene: alcuni dei suoi vecchi collaboratori che si sono trasformati in lobbisti o in consulenti, proprio per quelle industrie alle quali questa idea non va giù.

È pratica comune che i collaboratori degli 'eletti', sia sul versante democratico che repubblicano, diventino lobbisti. Ma soprattutto per i Democratici il giochino dell'uscire dalla porta e rientrare dalla finestra – che quelli chic chiamano revolving door - si sta rivelando di difficile gestione.

La linea politica repubblicana è sempre stata palesemente quella della riduzione delle tasse e della difesa delle multinazionali statunitensi, e quindi il lavorare di concerto con i lobbisti che difendono questi interessi non ha mai creato problemi politici.

Non è altrettanto semplice per gli assistenti delle campagne elettorali dei politici DEM che, una volta eletto il loro candidato, si 'riciclano' e diventano lobbisti, trovandosi costretti a vivere il conflitto tra gli interessi dei loro nuovi datori di lavoro – le aziende che rappresentano - e quelli del neo-Presidente che hanno rappresentato fino a poco tempo prima.

"Il problema di Biden è che continua a considerare le persone che conosceva prima che diventassero lobbisti come se non lo siano" -ha commentato Jeff Hauser, analista sull'attività di lobbying sui governi per il think tank liberista CEPR (Center for Economic and Policy Research)- "Essere amico di una persona non ti rende la persona più adatta a capire le motivazioni che la guidano oggi. Il lavoro fatto insieme nel passato crea un pregiudizio nella valutazione".

Oggi Biden deve 'assumere' centinaia di persone per il suo governo, e non sta escludendo i lobbisti. In fondo anche Obama e Trump, che avevano dichiarato che non li avrebbero mai inseriti nei loro staff, lo hanno fatto eccome, e Biden non è da meno.

Ecco i primi nomi: Jessica Hertz, vecchia collaboratrice di Biden, che ora è diventata consigliere legale del transition team, sui temi della conformità alle regole etiche. Hertz proviene da Facebook, azienda nel mirino di molti Dem che credono che l'attività del gigante tech debba essere più regolamentata.

Mark Gitenstein, altro membro del transition team, ambasciatore USA in Romania ai tempi dell'Amministrazione Obama, proviene dalla sede di Washington dello studio legale Mayer Brown, dove era a capo della practice del commercio internazionale. È utile precisare che, negli Usa, gli studi legali esercitano anche attività di lobbying, e lo studio Mayer Brown rappresenta da almeno due decenni la US Chamber of Commerce, con lo stesso Gitenstein registrato come loro lobbista nel 2008.

Un altro vecchio collaboratore del presidente-eletto, Jay Carney, ora guida la squadra di lobbying e relazioni con i media di Amazon. Carney ha iniziato la sua carriera nel governo nel 2009 come direttore della comunicazione dell'allora Vice-Presidente.

Anche in questo caso si intravede all'orizzonte un possibile conflitto, se consideriamo che nel maggio scorso Biden ha dichiarato che 'Amazon dovrebbe iniziare a pagare le tasse' e molti Democratici sostengono che l'azienda abbia troppo potere di mercato e che dovrebbe anch'essa essere soggetta a più regole, se non addirittura 'spacchettata' in più aziende.

Ma forse il conflitto di interessi è solo una supposizione. Al contrario del vecchio detto, a pensar male ci si azzecca, ma non sempre. Alcuni vecchi collaboratori di Biden, infatti, sostengono di non avere mai ricevuto favori nel loro nuovo ruolo; uno per tutti Jeff Connaughton, tra i suoi più importanti fundraiser sia nelle elezioni per il Senato che per la corsa presidenziale del 2008. Nel suo libro 'The Payoff', si è lamentato del fatto che, da quando è diventato un lobbista, Biden non abbia mai avuto un occhio di riguardo nei suoi confronti.

Sarà vero? Non possiamo dirlo. Una cosa possiamo dirla, però: se noi di Telos A&S crediamo che non bisogna parlare di lobbying all'americana nel sistema italiano e che sarebbe necessario mettere un chiaro stop alle porte girevoli, un motivo ci sarà.

di Mariella Palazzolo