Dimmi che non è vero, Dieguito. Che è un'altra tua trovata, per farti beffa del mondo. Dimmi che stai ridendo, ballando, palleggiando un'arancia. Dimmi che stai danzando, ebbro e felice, tra i tuoi sogni e le tue nostalgie.
No, è una maledetta illusione: non ci sei più. Ti ha fermato un avversario terribile, un arresto cardiocircolatorio. A 60 anni compiuti da poco, dopo un'operazione alla testa: tu che ti fai fotografare, dopo l'intervento, sorridente, "anche questa è andata". Con quel tuo sorriso a girasole, da scugnizzo di Lanús, lo stesso che avevi da ragazzino, quando già stupivi l'universo del fútbol con i tuoi gol, i tuoi dribbling, le tue prodezze.
Non è retorica: in tanti ci sentiamo, ora, più soli. Perché hai rappresentato, per noi amanti della bellezza del calcio, la perla più preziosa, il giocatore capace di tutte le meraviglie del possibile e dell'impossibile: pensa, c'è chi assicura di averti visto palleggiare con una goccia d'acqua in un pomeriggio di tempesta al campo di allenamento di Soccavo. Hai conquistato un mondiale, quello di Messico '86, scrivendo, contro l'Inghilterra, i racconti più abbaglianti del football: prima la mano de Dios, il colpo proibito per vendicare le Malvinas, poi la rete più bella e travolgente di tutti i tempi, con i calciatori inglesi saltati come birilli, storditi, smarriti e increduli.
Sei passato dal Barcellona, prima di arrivare, nel luglio del 1984, al Napoli. Tu e una città: una storia di amore e di passione, di giorni da incorniciare, di scudetti memorabili e di notti, talvolta, da dimenticare. C'ero anch'io, inviato di "Tuttosport", sull'aereo che ti portava dalla Spagna in Italia, nella tua nuova realtà, ventiquattrenne felice di vivere quella nuova avventura, in un luogo che ti ricordava, per i suoi colori e per il suo calore, l'Argentina del cuore. Pochi giorni dopo, ti intervistai per il mio giornale. "Come farai a superare la nostalgia per Buenos Aires?", "Mi basterà spalancare la finestra e guardare il mare di Napoli".
Ti sei perduto nei labirinti della droga, per uscirne fuori: a fatica, ma ci sei riuscito. Hai fatto tanto per gli altri, chiedendo il silenzio "perché il bene si fa senza pubblicità". Hai attaccato il Potere del pallone, hai sfidato i prepotenti della politica, hai scelto di stare a sinistra, "da buon soldato dell'America Latina". Eri il simbolo del riscatto di ogni Sud. Eri sempre tu: vero fino all'assurdo, mai una maschera, lo sguardo fiero, la testa alta. Ti hanno messo in croce mille volte, ma non ha mai ceduto: eri "el Diego", il più grande di tutti, sempre e per sempre.
Sei stato il mio Borges della pelota. Ho avuto la fortuna di conoscerti bene durante le stagioni napoletane e poi al Siviglia. Aveva addosso una voglia immensa di vita, voleva catturare ogni attimo, ogni secondo, ogni sospiro. I tuoi compagni ti ricordano, tutti, con affetto e commozione: hanno vinto grazie, soprattutto, a te. Eri un trascinatore, un esempio. Il pallone era il tuo sangue, la tua anima: dopo la gloria del prato verde, hai cominciato ad allenare. Perché non potevi stare lontano dal profumo dell'erba, dall'odore dello spogliatoio, dall'urlo della folla. Ogni volta che ti affacciavi sul campo, ecco partire il delirio: "Diego, Diegooo!".
Sono tanti i ricordi, ed è già struggente il rimpianto. Osvaldo Soriano che ti aveva conosciuto al mondiale italiano del '90 e che avrebbe voluto scrivere un romanzo con te protagonista. La tua amicizia con Gianni Minà. Il tuo parlare di Napoli sempre con dolcezza, con commozione. Le tue reti da centrocampo, da terra, quella punizione magica alla Juventus, il tuo sinistro che era musica, poema epico. Ti pensavamo eterno, questo il nostro peccato. Il nostro segno di profondo affetto. Ciao Dieguito, ci saranno ora le nuvole a farti compagnia. Non avrai più dolori. Sei, adesso, nel mito, nella leggenda.
Darwin Pastorin