C'era la guerra quella notte in cui Daniel Passarella, in un diluvio di coriandoli, alzava al cielo la Coppa Fifa dell'Argentina, nello stadio di Buenos Aires, sotto lo sguardo di Cesar Luis Menotti, di milioni di tifosi in delirio e dei generali della giunta Videla.

Era una guerra che oggi chiamiamo sporca, fatta di indicibili orrori e di decine di migliaia di desaparecidos. Quella notte l'Argentina festeggiava, comunque, una vittoria storica, in quell'abbraccio spesso inevitabile tra il potere e lo sport. Non c'era, in quella Seleccion, il giovane talento più atteso del pallone mondiale, non c'era Diego Armando Maradona, 17enne capelluto, sfrontato e geniale.

Aveva sognato la convocazione, che alla fine non era arrivata. Quattro anni dopo, nella Spagna del giovane Juan Carlos che faceva il collaudo al ritorno alla democrazia, Maradona era la star più attesa, insieme al brasiliano Zico. Finì male, e anche in quell'occasione c'era aria di guerra: il conflitto delle Falkland, tra i generali argentini e l'esercito britannico, era terminato da sole tre settimane. Finì quando durante la classicissima sfida con il Brasile, Diego, con il leggendario numero dieci sulle spalle, rifilò un calcio nello stomaco a Batista all’86esimo minuto, con i verdeoro già avanti 3-0. Espulso, lui dalla partita, la nazionale albiceleste dal Mundial. Sembrava una fine, ingloriosa e frustrata. Forse invece fu un inizio. L’inizio della costruzione di un mito globale irrefrenabile, incontenibile, folle, visionario, truffaldino, grottesco, magnifico, probabilmente impossibile perfino da raccontare.

Perché bastava guardarlo giocare per capire, non servivano le spiegazioni. Era un’opera d’arte totale. Era il Don Chisciotte del calcio moderno, il delirio di un pazzo in una notte del Novecento latino, era uno stato di guerra permanente, una militanza esistenziale. Era semplicemente sublime, il sublime della filosofia, quello che non possiamo spiegare. Che attrae e spaventa nello stesso modo.

Era El Diego che, con ancora la rabbia per l’esclusione del ’78 e quel cartellino rosso umiliante, fondava se stesso.

Quella storia leggendaria, nata con un capo chino e tanti fischi, finirà in modo se possibile ancora più pazzesco, in un pomeriggio d’estate statunitense. Era il 25 giugno del 1994, lo stadio era disperso nella campagna del Massachusetts. Ora lo hanno demolito. L’Argentina aveva appena battuto 2-1 la Nigeria nella seconda partita del girone eliminatorio. Maradona aveva fatto l’assist a Caniggia per il gol decisivo. Uscendo tra molti sorrisi Diego prende la mano dell’infermiera addetta al controllo antidoping e si avvia verso gli spogliatoi. Sembra felice come poche volte lo avevamo visto. L’ultima immagine che abbiamo di lui calciatore lo vede accanto a un addetto, uomo questa volta, cui, prima di scomparire dalla vista delle telecamere, El Pibe de oro posa amichevolmente un braccio sulle spalle, come se gli raccontasse qualcosa.

Da quel controllo uscirà la nuova positività di Maradona e il sipario sportivo calerà su colui che abbiamo così tante volte sentito dire che era “meglio di Pelé”. Questa storia leggendaria finiva, nell’ignominia, ma con sorrisi e pacche sulle spalle. Neppure uno sceneggiatore dei più brillanti e disturbati avrebbe potuto immaginare due estremi così contraddittori. Eppure è andata esattamente così. Come direbbe Kurt Vonnegut, è tutto accaduto, più o meno.

Ma cosa è accaduto nel lungo intervallo tra quei due momenti? L’elenco è difficile da stilare, ma possiamo provarci, con delle istantanee: la maglia del Barcellona e le prime magie europee. Quei palleggi al San Paolo di Napoli; le battaglie con la Juventus di Agnelli e l’Inter di Rummenigge; il delirio assoluto di due Scudetti a Napoli; altre guerre, mediatiche o sotterranee, le zone oscure dei bassifondi e il clamore delle feste; inferno e paradiso. E poi la parola definitiva sul calcio: Messico, 1986. Il Mondiale vinto praticamente da solo, l’epica che si ribalta con Ettore che, per una volta, si lascia alle spalle Achille e Odisseo; la divinizzazione del più umano, il “troppo umano”, direbbe Nietzsche.

E se tutti ricordiamo la doppietta con l’Inghilterra, tra il gol di mano e quello segnato scartando praticamente tutti i giocatori di Sua Maestà, il vero momento di trionfo incondizionato, il Capolavoro assoluto è però un altro. E’ la semifinale con il sorprendente Belgio di Pfaff e Scifo. In dieci minuti Maradona segna due reti prodigiose per passo, tocco, intuizione del movimento, velocità d’esecuzione: due trattati sull’idea stessa del gol. La sua idea platonica. Due pietre miliari concepite e finalizzate con quella naturalezza astuta che è la stessa che gli ha fatto scrivere, nella sua autobiografia, “non pensai mai, mai, di essere nato per giocare a calcio”.

Falso ovviamente, come false, da molti punti di vista, sono le grandi opere d’arte, la cui forza però è di creare, dal loro essere artefatti, una verità più grande. Una verità assoluta. Le due reti contro il Belgio possono essere state, per Diego, quella verità più grande. Tra l’altro era sempre un 25 giugno, otto anni esatti prima dell’ultima recita. La Coppa alzata da capitano, quattro giorni dopo, era solo l’ufficializzazione formale di quanto era già successo, era un racconto di Borges nel quale il futuro accadeva prima del passato.

Diego Armando Maradona, in fondo, era una manifestazione di cultura popolare: dall’iconografia delle periferie ai messaggi d’amore per la famiglia e il “pueblo”; dal sentimento nazionale all’anticonformismo politico, dalla santità sportiva alla depravazione. Tutto insieme, tutto inestricabilmente legato. Non si poteva sperare di meglio nelle redazioni di qualunque giornale, dai rotocalchi scandalistici ai più colti ambienti filo cubani. Era, semplicemente, un eroe. Da dipingere sui muri o da cantare nelle canzoni, come Bolivar o Che Guevara. E forse l’immagine giusta per ricordarlo nel giorno in cui arriva la notizia della sua morte è quella di una celebrazione che però assomigliava già a un funerale, officiato – ovviamente in maniera trionfale, rumorosa e commovente – da Diego stesso, perché nessun altro avrebbe potuto ardire di farlo. Nel film che Emir Kusturica gli ha dedicato c’è una scena assolutamente indimenticabile nella quale Maradona sale sul palco di un locale con dei musicisti, si mette al microfono, e canta “La mano de Dios”, la canzone su di lui, Diego su Diego.

Guardate le espressioni del suo volto, guardate gli occhi delle figlie che prima lo osservano dalla sala e poi salgono con lui, guardate chi sono gli uomini che si mettono alle sue spalle e saltano cantando a squarciagola (sono Burruchaga, Brown, gente che ha segnato i gol nella storica finale dell’86, eppure sembrano dei tifosi qualsiasi, impazziti per la felicità di poter stare accanto a Maradona per qualche minuto). Guardate il melodramma puro e la pura verità di un personaggio troppo grande per fallire e che ha avuto la spregiudicatezza di fallire lo stesso in modo roboante. Guardatelo, con un colpo di genio, lasciare che siano gli altri, e non lui, a scandire il suo nome nel ritornello. L’umiltà dentro la più pacchiana delle autocelebrazioni. Questo era Maradona, questo groviglio di contraddizioni geniali che hanno generato il più grande calciatore della storia che, nonostante tutto, si è ostinato anche a restare un uomo.

E le parole con cui si chiude la scena, sono le parole di oggi. Diego che guarda il pubblico e dice: “Ve quiero a todos”, “Vi amo tutti”.

Leonardo Merlini