Ottavio Bianchi ci ha messo una notte a “metabolizzare il dolore” per la morte di Maradona. Lo hanno chiamato subito, dall’Argentina, e ha chiuso il telefono lasciando la figlia Camilla in balia dei giornalisti di tutta Italia, “non risponde più nemmeno a me, inizio a preoccuparmi”.

“Io come al solito non tengo i contatti con nessuno dopo. A me interessava solo sapere se stava bene o meno. Ogni tanto cadeva, ma vedevo che si rialzava, dribblava la vita. Stavolta non ce l’ha fatta. Me lo voglio ricordare come l’ho vissuto io, a quattr’occhi. Il resto non mi interessa. Me lo voglio ricordare con i nostri litigi, la nostra contrapposizione, la nostra differenza”. Passata la nottata, il freddo, il distaccato, il bergamasco, l’allenatore che portò Napoli al primo scudetto della sua storia, che si trovò a gestire forse la persona più lontana da sé, è pronto a raccontare il suo Diego.

O meglio, “l’altro Diego”. “Quello di campo, quello che ho conosciuto io”. “Con Diego avevamo una comunicazione strana, personalissima, che nessuno dei due per pudore ha mai fatto trapelare, perché eravamo due caratteri completamente diversi”. Pudore. La prima parola che non ti aspetti. Maradona, il dio del calcio, era capace di pudore? “Mi fanno sempre la stessa domanda ‘gestire Maradona deve essere stato difficile?’, e io rispondo sempre ‘gestire chi si crede Maradona è stato molto difficile’”.

“Guardi, - continua Bianchi - nessun uomo al mondo, anche culturalmente più preparato, anche con estrazione sociale diversa, sarebbe stato capace di gestire la pressione che aveva Diego”. Lungo silenzio. “Diego era solo, povero ragazzo. Aveva il mondo addosso sin da quando era piccolo. A quindici anni era già un passaparola. Tutti approfittavano della sua generosità intellettuale. Diceva sempre di sì. Agli amici, agli pseudo-amici. La mia giustificazione dei suoi eccessi è sempre stata questa. Nessuno di noi sarebbe stato in grado di sopravvivere.”

Troppi sì, che ne giustificavano le bizze. Che il mister Bianchi vedeva, e figuriamoci se poteva apprezzarle. “Io sono un uomo pragmatico. Gli eccessi non mi piacciono. Non posso pretendere di dare giudizi sulla vita degli altri, a fatica sono d’accordo con quello che faccio io. Quello che mi crea rabbia però, è che se tutti l’avessero aiutato… da noi si dice ‘per un padre è molto più facile dire di sì al figlio’. Se qualche volta, chi gli stava molto vicino, gli avesse detto di no, invece di cavalcare l’onda del grande personaggio, del grande campione”.

Ci ha anche provato a entrare in un ruolo più grande di lui, lo ha raccontato nel libro “Sopra il vulcano” (Baldini+Castoldi), lo ripete ora. “Tentavo di convincerlo a non correre così tanto. Mi rispondeva: ‘Lei ha ragione ma io voglio vivere con l’acceleratore al massimo’. Lì ho capito che non ero in grado di entrare nella sua testa. Lui aveva scelto così, e non potevo farci niente”.

Qui il dolore diventa amarezza. “Non ero all’altezza e non potevo permettermi di indirizzare il suo dopo lavoro, ma quelle volte che ci trovavamo da soli e analizzavamo i nostri percorsi, usciva fuori una persona completamente diversa da quella che raccontate voi giornalisti. Una persona semplice, umile, a disposizione, modesta. Proprio l’opposto di quello che appariva fuori perché era il suo personaggio”.

Il mister torna in campo, e dalla voce, immagini il suo proverbiale sorriso largo. “Le faccio un esempio tecnico, lui raramente sbagliava, ma se lo facevano gli altri non l’ho mai sentito criticare. Non come certi mediocri… Per dire, quando facevo esordire un giovane era felicissimo, gli regalava le scarpe”. Inevitabile parlare di Napoli, dove approdò dopo l’esperienza a Barcellona. Luci e ombre. Un infortunio gravissimo, “di una cattiveria inaudita”: “Gli spagnoli sono diversi da noi. Lui ha trovato a Napoli il suo ambiente. I napoletani amano i sudamericani. Poi Diego, bastava vederlo per innamorarsi. Come lui si è innamorato di Napoli subito, loro subito si sono innamorati di lui. Vedo che continua ancora e mi fa piacere”. Del primo storico scudetto ricorda quella che chiama “una gaffe notevolissima”: “Stavano festeggiando giustamente, io ero in disparte perché ritenevo che i protagonisti fossero loro. Però, siccome dopo una settimana avevamo una finale di Coppa Italia, in maniera molto spudorata, mi vergogno ancora adesso, dissi: ‘oi ragazzi, non abbiamo ancora vinto niente’. Mi hanno guardato come un matto”.

L’altro Diego, il vero Diego, non finisce di sorprendere. Mister Bianchi rovescia pure il racconto del giocoliere pigro. “Era un grandissimo atleta. Non un grande atleta, ma un grandissimo atleta. Per prepararlo ai mondiali dell’’86, che vinse, col suo preparatore Fernando Signorini facemmo una specie di tabella, e le assicuro che aveva la flessibilità articolare di Nureyev, era una palla di gomma, aveva tutte le caratteristiche del fuoriclasse: le capacità tecniche, quelle tattiche e quelle fisiche”.

Non si ricorda il loro primo incontro, ma la cattiveria del “nostro ambiente”, di una “grande giornale” che scrisse che “io non vedevo di buon occhio gli argentini. Immagini lei l’inizio come poteva essere...”. Finalmente ride Ottavio Bianchi, il mister di Maradona.