Una statua di Mussolini (Depositphotos)

di Fabio Martini

Si fa presto a dire "fascista!". Lanciare l'invettiva non è mai costato nulla e infatti per decenni l'accusa ha via via lambito, senza scalfirli, alcuni presidenti del Consiglio di provata fede democratica, uniti dalla stessa vera "colpa": ognuno di loro aveva contrastato energicamente la sinistra. Da qualche settimana l'invettiva colpisce Giorgia Meloni, che ha una storia politica e personale che obiettivamente richiama quel tipo di riflettori: la leader dei Fratelli d'Italia proviene da un mondo che nel passato ha coltivato nostalgie per il ventennio fascista.

E tuttavia Meloni è entrata in politica nel 1998, diventando a 21 anni consigliera provinciale di Alleanza nazionale, un partito che quattro anni prima – e non via tweet ma nel congresso di scioglimento dell'Msi – aveva definito «essenziale» l'antifascismo, valore fondante della democrazia italiana. Una distanza dal passato persino maggiore rispetto a José Maria Aznar, che da giovane aveva fatto a tempo a "militare" nel franchismo, nella pur critica Falange e poi era diventato primo ministro di Spagna, votato dalla maggioranza assoluta dei suoi connazionali.

Ma nella ricorrente abitudine, da parte di una certa tendenza politico-intellettuale, ad etichettare chicchessia di fascismo c'è un vizio che ritorna, grave e sempre lo stesso: la leggerezza nell'usare un termine così importante. Il fascismo è stato un fenomeno storico molto serio e molto grave: un prototipo nato in Italia e che ha fatto da pessimo modello in mezzo mondo, accendendo una guerra tragica

Fascista è un termine da usare a ragion veduta. Per chi lo "merita". Perché definisce qualcosa di molto preciso: un sistema autoritario andato al potere attraverso la violenza e l'annullamento delle libertà politiche, fondato su un partito unico di massa, sul culto del capo, sull'annullamento terroristico delle opposizioni. Se questo è il fascismo, secondo una definizione di Norberto Bobbio, oggi in Italia chi possiamo definire fascista? La risposta di Emilio Gentile, il più autorevole storico italiano del ventennio, è da lui stesso definita lapalissiana: «È fascista chi si considera erede del fascismo storico, pensa ed agisce secondo le idee e i metodi del fascismo storico, milita in organizzazioni che si richiamano al fascismo storico, aspirano a realizzare una concezione fascista della nazione e dello Stato, non necessariamente identico allo Stato mussoliniano». Per Gentile non ci sono dubbi: il neofascismo non è un pericolo attuale e d'altra parte se restiamo a lui e a Bobbio, risulta problematico rintracciare nelle loro definizioni Giorgia Meloni e il suo partito.

Naturalmente in Italia i fascisti non sono mai mancati: tra gli anni Sessanta e Ottanta alcuni di loro hanno picchiato a sangue, hanno progettato e realizzato assassini politici e stragi. Quelli erano fascisti: picchiatori e terroristi di formazioni extraparlamentari, alcuni dei quali in precedenza avevano militato nell'Msi. E tuttavia proprio la Fiamma di Giorgio Almirante ne diventò un nemico giurato. Erano gli anni di piombo, camerati e compagni si ammazzavano per strada e alla fine degli anni Settanta Enrico Berlinguer accettò di incontrarsi, molto segretamente, col segretario missino Almirante per scambiarsi informazioni e capire come fermare quella  tragica emorragia che rischiava di dissanguare una generazione, alimentando gli opposti terrorismi e rafforzando il potere democristiano.

Quelli, sì, erano fascisti: hanno agito una cinquantina d'anni fa e sono stati circoscritti ed espunti anche grazie agli effetti di una norma costituzionale ben calibrata. In tanti, quasi tutti, lo hanno dimenticato ma quella norma a suo tempo era stata caldeggiata da Palmiro Togliatti. Nell'Assemblea costituente, riunita quando la caduta di Benito Mussolini era ancora recentissima, il segretario del Pci convinse gli altri leader democratici che andava vietata la riorganizzazione del partito fascista, ma facendo attenzione a circoscrivere le limitazioni dei reati di opinione ai casi più gravi. Togliatti aveva chiesto di «non formulare un articolo che possa fornire pretesto a misure antidemocratiche, prestandosi ad interpretazioni diverse». Pensava, per il futuro, a preservare anche l'opposizione comunista, ma seppe guardare lungo, proponendo di circoscrivere il divieto ad una fattispecie precisa: la ricostituzione del partito fascista quello che «prese corpo in Italia dal 1919 fino al 25 luglio 1943».

E così è stato: nei decenni successivi non sono stati perseguiti la simpatia per il fascismo e neppure le manifestazioni più esteriori di nostalgia. La giurisprudenza si è basata proprio sulla XII Disposizione transitoria e finale della Cositutuzione, secondo le quali «è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Le successive leggi (Scelba e Mancino), applicative di quei principii si sono dimostrate leggi buone ed efficaci nel reprimere apologie e riorganizzazioni, soprattutto perché normative modellate attorno ad una prescrizione costituzionale netta ma non persecutoria.

Si denuncia da più parti – e a ragione – che in Italia esistono sacche di neofascismo militante, aggressivo, spesso manesco e talora violento. Si tratta di movimenti da tenere d'occhio, spesso "border line" e di uno di questi, Forza Nuova, Fratelli d'Italia ha chiesto lo scioglimento. E quanto a Fdi, è provato che tra giovani e vecchi militanti e tra qualche parlamentare affiorano ogni tanto episodi folcloristici che raccontano di un sottofondo di nostalgia fascista, in genere rimasto confinato alla sfera privata e che è giusto tenere ben monitorato.

Certo, Giorgia Meloni  per anni ha faticato a menzionare le parole fascismo e nazismo, ma nel suo ultimo messaggio alla stampa estera è andata oltre, sostenendo che «la destra italiana ha consegnato il fascismo alla storia da decenni, condannando senza ambiguità la soppressione della democrazia e le vergognose leggi contro gli ebrei». E di recente ha spiegato di appartenere ad una «destra democratica, repubblicana, cristiana, liberale e patriottica».

Fratelli d'Italia si propone come una forza orgogliosamente di destra e conservatrice e tutti coloro che vogliono combatterne le idee – media, intellettuali e partiti - conoscono idee, dossier e alleati europei. E invece nella costante radiografia sulle parole di Meloni a caccia dell'"errore", può capitare persino che il classico "Dio, patria e famiglia" (rilanciato dai Fratelli) venga scambiato come nostalgismo mussoliniano, anche se la triade appartiene ad uno dei padri della nazione italiana: il democraticissimo Giuseppe Mazzini.

Siamo ai "professionisti dell'antifascismo"? Se si insistesse nelle prossime settimane a ribadire un'accusa sostanzialmente infondata, avremmo la prova che simili invettive, più che delegittimare chi le riceve, in realtà servono a legittimare l'autore come antifascista tutto d'un pezzo. Ma tutto questo è anche irrispettoso verso chi il fascismo vero lo ha combattuto, perdendo la vita.

Fascismo e antifascismo vanno chiamati in causa a ragion veduta. L'uso della parola è la prima convenzione che l'uomo si è dato qualche secolo fa e l'uso distorto delle parole ha sempre portato ad equivoci pericolosi.