Di Maio pone il veto sulla partecipazione di Forza Italia, e soprattutto del pregiudicato Silvio Berlusconi, a una futura maggioranza. Salvini lo respinge e lo pone a sua volta sul Partito democratico: “Mai con il Pd”, proclama. In questo modo, però, rischiano di ostacolarsi e danneggiarsi a vicenda, impedendosi reciprocamente di diventare premier. Tanto che a volte si ha quasi l’impressione che in realtà non vogliano arrivare alla guida di Palazzo Chigi. A parte i voti (insufficienti) e i veti (incrociati),il fatto è che in entrambi i casi si tratta – appunto – di due autocandidature.

Ma il nostro sistema costituzionale prevede invece che sia il Capo dello Stato, al termine delle consultazioni al Quirinale, a scegliere e nominare il presidente del Consiglio dei ministri. E in base alle indicazioni dei gruppi parlamentari, deve affidare l’incarico all’esponente politico che ritiene più in grado di formare una maggioranza, cioè di aggregare i consensi necessari nelle due Camere.

Ora è vero che Di Maio è il leader del primo partito. Ma è anche vero che Salvini è il
candidato-premier della coalizione che ha raccolto complessivamente più voti. Ed è comprensibile perciò che il leader leghista non voglia perdere il suo potere contrattuale, rompendo l’alleanza con cui s’è presentato alle urne: fra l’altro, potrebbe pagarne le conseguenze nelle giunte regionali che governa insieme a Forza Italia, per esempio in Lombardia e in Veneto, mentre punta a vincere in Friuli e in Molise.

Il suo obiettivo, piuttosto, è quello di ereditare prima o poi una buona parte dell’elettorato berlusconiano e diventare così il leader assoluto del centrodestra, magari dopo aver consumato un parricidio politico. Se Di Maio dunque dice “no” a Berlusconi, alleato di Salvini, quest’ultimo dice “no” al Partito democratico che il Cavaliere preferirebbe invece come partner di governo. Non solo perché in passato, ai tempi di Pierluigi Bersani e di Enrico Letta, un governo insieme Forza Italia e il Pd l’hanno già fatto.

Ma anche perché i due partiti appartengono a quello stesso sistema in cui hanno convissuto nella Seconda Repubblica: capitalistico, occidentale, europeo, filo-atlantico. Mentre oggi la Lega, come dimostrano le polemiche sulla crisi siriana, tende ad avere un atteggiamento più favorevole alla Russia di Vladimir Putin. Né può bastare, evidentemente, il fattore generazionale per legare i due “mezzi vincitori”.

Intanto perché Di Maio ha 31 anni ed è meridionale di Avellino, mentre Salvini ne ha 45 ed è settentrionale di Milano (ciò che semmai lo avvicinerebbe di più a Matteo Renzi che ne ha appena due meno di lui ed è fiorentino). Ma soprattutto per il dato oggettivo che i loro rispettivi programmi, pur essendo fondati entrambi su un mix di populismo e demagogia, divergono o confliggono su diversi punti: il reddito di cittadinanza e la “flat tax”, la questione immigrazione, l’atteggiamento verso l’Unione europea e soprattutto la collocazione internazionale.

Per un duplice paradosso, in questa situazione di stallo Di Maio paga il prezzo di aver demonizzato il Partito democratico nella battaglia elettorale e Salvini quello di essere
rimasto fedele alla coalizione berlusconiana. Il siparietto che il Cavaliere ha magistralmente interpretato al Quirinale, togliendo la scena al giovane e aitante alleato, rappresenta per lui una specie di pena del contrappasso. E il candidato-premier dei Cinquestelle, a sua volta, paga il prezzo di una campagna tesa a screditare e delegittimare un Pd a cui ora lui stesso offre contraddittoriamente una proposta di alleanza.

Fino a pochi giorni fa, diversi osservatori pronosticavano che Di Maio e Salvini sarebbero stati costretti a governare insieme. Adesso non si può escludere invece che siano costretti a governare l’uno contro l’altro. A questo punto la crisi ruota intorno al Partito democratico, a cui l’impasse post-elettorale attribuisce il ruolo di ago della bilancia. Sarà verosimilmente il grande sconfitto delle ultime politiche a dover decidere se fare un accordo di governo con il M5S o con la Lega.

O eventualmente con entrambi, nella prospettiva di un “governo del presidente” ovvero di un “governissimo”, con la partecipazione di tutti o, almeno, di tutti coloro che saranno disposti a sostenerlo. Nel frattempo, a più di un mese e mezzo dalle elezioni, i problemi
del Paese e le aspettative dei cittadini restano purtroppo in stand-by. Qualcuno comincia a rimpiangere l’Italicum con il suo meccanismo maggioritario, proposto a suo tempo da Renzi e bocciato dalla Corte costituzionale su alcuni punti che avrebbero potuto anche essere corretti. E molti, in attesa della Terza Repubblica, provano perfino qualche punta di nostalgia perla Prima.