Gente d'Italia

E come la mettiamo con la “clausola di salvaguardia?”

Tra i rischi di un prolungarsi di una fase di ingovernabilità evocati dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo appello ai partiti perché sostengano un "governo di servizio", ce n'è uno molto concreto, che avrebbe da subito conseguenze percepibili sul portafoglio di tutti i cittadini. Si tratta della clausola di salvaguardia, ovvero dell'aumento automatico di Iva e accise che scatterebbe l'anno prossimo se non venissero trovate le coperture (crescita delle entrate o riduzioni della spesa) che consentano di mantenere la legge di bilancio coerente con i vincoli di riduzione del debito e del deficit previsti dalle regole europee.

In sostanza si tratta di una sorta di "pagherò" con il quale il governo si impegna con Bruxelles a mettere a bilancio una determinata somma. Se non trova il modo di reperirla - con il contrasto all'evasione, l'aumento delle imposte o il taglio delle spese - il rincaro dell'Iva scatterà automaticamente, così da garantire il rispetto degli impegni presi. Ma come nasce la clausola di salvaguardia? Bisogna tornare all'estate del 2011, quella dello spread alle stelle e degli attacchi speculativi contro l'Italia che fecero temere un default della terza economia dell'Eurozona.

Il governo Berlusconi, di lì a poco costretto alle dimissioni, strinse un patto con Bruxelles, impegnandosi a reperire 20 miliardi di risorse aggiuntive (che poi diventeranno 40) entro il 30 settembre 2012 per rimettere i conti in carreggiata. In assenza di interventi sufficienti, sarebbe scattato, a mo' di garanzia, un taglio di detrazioni e deduzioni. Rispettare l'impegno toccò all'esecutivo guidato da Monti, con le sue dure misure di austerità, a partire dalla Legge Fornero. L'ex commissario europeo modifica però il funzionamento della clausola: qualora non venga rispettata, invece di un taglio delle agevolazioni, sarebbe scattato un aumento dell'Iva.

Da allora, come succede nella vita reale a tanti cattivi pagatori, le "cambiali fiscali" hanno finito spesso per accumularsi e molte necessarie pianificazioni a essere rimandate all'anno dopo, passando magari il cerino a un altro governo. Il governo quindi deve reperire 12,5 miliardi quest'anno, da mettere a bilancio nella legge di bilancio per il 2019, e altri 19 miliardi per la finanziaria del 2020. In assenza di interventi, l'aliquota Iva ridotta del 10% salirà nel 2019 all'11,5% e nel 2020 al 13%, mentre quella ordinaria del 22% passerà al 24,2% dal 2019, al 24,9% dal 2020 e al 25% dal 2021.

In teoria il Def, ovvero il documento di programmazione economica e finanziaria che costituisce l'ossatura della futura legge di bilancio, va inviato alla Commissione Europea all'inizio di aprile. Dato il confuso quadro politico uscito dalle urne del 4 marzo, Bruxelles ha chiuso un occhio e si è limitata a trasmettere un 'Def tecnico' che contiene solo l'aggiornamento del quadro tendenziale a legislazione vigente, ovvero l'indicazione di quali dovrebbero essere i trend dei conti pubblici stante la situazione attuale, senza alcun impegno programmatico. Urge quindi un governo in carica che stenda un Def vero e proprio e decida con quali interventi recuperare quei dodici miliardi e mezzo.

Ma non può pensarci il governo Gentiloni? No, perché un governo uscente dovrebbe occuparsi solo dell'ordinaria amministrazione. Sarebbe politicamente assurdo che un esecutivo senza la fiducia del Parlamento decida nuove tasse o nuovi tagli per l'anno
venturo. È utile ricordare che sia la Lega che il M5s avevano in un primo momento annunciato che avrebbero presentato loro proposte da inserire nel Def ma poi non se ne è più saputo nulla. Sulla carta, c'è tempo fino a dicembre, ovvero fino all'approvazione della finanziaria.

"Come già avvenuto negli anni scorsi il rialzo dell'Iva può essere evitato e il gettito atteso può essere sostituito da misure alternative mediante futuri interventi legislativi, per esempio con la legge di bilancio 2019", ha ricordato oggi il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan. Se si tornasse alle urne, però, tutto diventerebbe piuttosto complicato. A settembre, infatti, dovrà essere stilata la nota di aggiornamento al Def, che dovrà prevedere con una certa precisione gli interventi previsti in manovra.

Se si andasse a votare in estate, magari con la stessa legge elettorale, impegnando il
Paese in una nuova estenuante trattativa, i margini temporali per chiudere la partita inizierebbero a diventare strettissimi. E, se si può pure riuscire a convincere Bruxelles a portare un po' di pazienza, i mercati finanziari e la speculazione potrebbero perderla molto prima.

 

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