Imi, una sigla che oggi dice poco: Internati militari italiani. Così vennero chiamati coloro che per mesi o addirittura anni restarono chiusi nei campi di lavoro nazisti e le cui identità, oggi, vengono ricordate a Roma nel museo permanente intitolato "Vite di IMI. Percorsi dal fronte di guerra ai lager 1943-1945". All’inaugurazione nella sede dell'Anrp (l'associazione che riunisce gli ex prigionieri e i loro familiari), in via Labicana 15, erano presenti anche l'ambasciatore tedesco Susanne Marianne Wasum Rainer e Lutz Kilkhammer, vice direttore dell'Istituto Storico Germanico di Roma.

Per coinvolgere le nuove generazioni e le scuole, l'Associazione nazionale reduci dalla prigionia ha realizzato un percorso multimediale con proiezioni, video emozionali e approfondimenti touchscreen. Tra le tante storie illustrate, c'è quella di Michele Montagano, classe 1922: a 21 anni venne imprigionato nei campi KZ in Germania. Oggi ha 97 anni e dedica il suo tempo a raccontare la sua esperienza agli studenti.

Quella degli Imi è stata a lungo una storia dimenticata: su 650.000 italiani catturati dai nazisti e internati in Germania solo il 10 per cento optò per la Repubblica Sociale Italiana. Tutti gli altri ostinatamente si rifiutarono di aderire al nazi-fascismo, tracciando una pagina dimenticata della Resistenza, da cui discese la qualifica di Imi, una denominazione inedita, non prigionieri di guerra ma “traditori”, ai quali doveva essere riservato un particolare trattamento. Fu una scelta consapevole ma dolorosa: 70.000 di loro non fecero più ritorno in Italia.

Il museo organizzato dagli ex prigionieri è stato realizzato grazie al contributo del “Fondo italo tedesco per il futuro”. Un’esposizione che parte dalla riproduzione del portellone di un treno, simbolico inizio del percorso verso i campi e una mappa dei fronti di cattura, con cornici digitali che mostrano foto d'epoca sui luoghi delle detenzioni. E’ inoltre possibile ricercare per nominativo le diverse strutture di internamento e approfondire, mediante totem touch-screen e video, la storia oggetto del percorso multimediale e della mostra.

Di rilievo, infine, gli “oggetti parlanti”, attivati da un sensore che fa partire un filmato che ne racconta la storia. Il museo raccoglie materiale originale che evoca la vita dei lager: si tratta di lettere, fotografie, disegni, libretti di lavoro, oggetti di uso comune. Una vicenda iniziata l’8 settembre 1943 con la cattura di un esercito alla sbando, il lungo viaggio verso la Germania, il campo di lavoro, la fame e la morte, la liberazione e poi l’oblio.

Nell’allestimento, le nuove tecnologie digitali, multimediali e immersive si sposano con oggetti, cimeli, scritti e testimonianze degli internati e con moduli strutturali in metallo, composti da elementi ruvidi e grezzi, allo scopo di documentare e rievocare le condizioni di vita e di lavoro dei prigionieri. Su di loro è sceso un lungo silenzio perché non fu facile, terminata la guerra, distinguere tra coloro che avevano detto no al nazi-fascismo e coloro che avevano deciso di lavorare nelle fabbriche tedesche alimentando il rifornimento bellico. Uno squarcio fu aperto da Alessandro Natta, ex segretario del Pci, con il libro “L'altra Resistenza, i militari italiani internati in Germania” edito da Einaudi nel 1997.

L’8 settembre, scrive Alessandro Natta, “fu lo scoppio di una passione antitedesca più che la razionale volontà di un mutamento politico. La sera in cui il mio gruppo giunse a Muhlberg sull’Elba, dopo l’interminabile viaggio, il colonnello Imbriani mi pregò di fare una conferenza per tenere su il morale dei compagni di prigionia. Nella fredda baracca del nostro primo lager dissi tutto ciò che ricordavo di Carlo Cattaneo, delle Cinque giornate, del glorioso ‘48. Ascoltarono quasi tutti e in tutti vi fu interesse e commozione”.

Iniziava così il faticoso e contrastato cammino verso la ragione, la consapevolezza, in modo da mutare in giudizio critico la ribellione sentimentale contro il nazi-fascismo. Così i lager, in special modo quelli dove erano tenuti prigionieri gli ufficiali, dall’arrivo in Germania separati dai soldati, diventarono scuole di democrazia. Da quel rifiuto non solo le forze armate ma l’Italia stessa trasse alimento per ricostruire un senso di identità nazionale dopo la guerra. Uniti da quel “no” testardo ufficiali e soldati si trovarono accomunati, al di là di divisioni di classe, di cultura, di ceto, in una stessa visione del loro futuro.

Fu un rifiuto esercitato senza ideologismi, senza proclami, con l’eroismo inconscio e naturale dei veri soldati: quello che faceva ammirare al conte Pierre Bezuchov in “Guerra e pace” l’ostinato e pacifico coraggio dei soldati russi impegnati contro i francesi invasori. Fu certo il fastidioso senso di superiorità e il disprezzo esibito nei confronti degli italiani, a cementare quel rifiuto, quell’insistito e quasi snobistico rimanere fedeli al giuramento prestato.

Altengrabow, Siedele, Sandbostel e Fallingbostel furono i campi principali di prigionia degli italiani, luoghi non certo famosi come i campi di concentramento degli ebrei, ma egualmente scuole di eroismo e sacrificio della seconda guerra mondiale.

Marco Ferrari