Dal 1962 quel palazzone di via Chiatamone 65, che ospiterà ancora per poco quello che fu il più grande quotidiano del Mezzogiorno, Il Mattino, è stato negli anni uno sciamare continuo di giornalisti capaci spesso di ignorarsi fino all’insolenza.

Vi arrivavano e ripartivano anche scrittori, poeti, letterati... Per due generazioni di giornalisti e intellettuali napoletani quell’indirizzo non è stato solo un luogo di lavoro - la Fleet Street napoletana - ma uno straordinario incubatore di storie, sogni, passioni e destini, che s’incrociarono all’ombra di una città soffocata ancora dal potere dei Gava, De Mita, Scotti, Di Lorenzo, Di Donato... e prigioniera di un mondo ferocemente diviso in blocchi.

Una città pietrificata, nella quale le lancette della storia sembravano essersi bloccate. Via Chiatamone 65 però non è stato solo il tempio partenopeo del giornalismo ma anche, e per un lungo periodo, un «covo di innocui trasgressivi», un "centro di attrazione" dove convergevano, a ondate, scontenti, curiosi, naufraghi bisognosi di una zattera cui aggrapparsi, giovani e meno giovani “promesse”, qualche bella donna, qualche campione del catalogo degli “intelligenti”.

Con i "passaggi culturali" di Domenico Rea, Raffaele La Capria, Luciano de Crescenzo, Andy Warhol,  Michele Prisco, Giuseppe Marotta, Giuseppe Galasso... In quelle grandi stanze sono nate ma purtroppo anche morte manifestazioni come la Settimana Motonautica, la Capri-Napoli di nuoto, l'Ondina di Sport Sud, Bontà di Napoli, e i più importanti avvenimenti sportivi culturali e industriali di tutto il Mezzogiorno.

Ma Via Chiatamone 65 è stato soprattutto una sorta di ventre materno per il sottoscritto: il bandolo stesso della mia esistenza... Abitavo insieme con la mia famiglia, a pochi passi da lì, al civico 57, il famoso e "nobile" Palazzo Cosenza. E quando il Mattino si trasferì dall'Angiporto Galleria, nel 1962 frequentavo gli ultimi giorni del terzo liceo classico all'Istituto De La Salle a Materdei.

Il mio tempo libero, poco per la verità, perché avevo gli esami di maturità, lo passavo "vogando" (il canottaggio era il mio sport preferito insieme con la pallanuoto, il rugby e... il calcio) ma da qualche mese confezionavo anche i famosi "tabellini" (formazioni, reti e piccola cronaca delle partite di promozione e serie D) al Corriere dello Sport sognando un giorno di poter apporre la mia firma sotto il "pezzo" in un grande giornale, Il Mattino, appunto...

I quattro direttori che fecero grande Il Mattino. Da sinistra: Orazio Mazzoni, Roberto Ciuni, Pasquale Nonno e Franco Angrisani

Entrai la prima volta i  via Chiatamone 65 pochi giorni dopo l'insediamento del Mattino trasferitosi dall'Angiporto Galleria. Si chiamava Mario Acerra indossava il tight, la sua giacca nera a falde lunghe e strette, i calzoni a righe grigie e nere con panciotto grigio e cravatta a plastron: sembrava un ricco novello sposo non il portiere di un giornale...

"Chi volete? Chi cercate, che volete? - chiese tra l'ironico e il divertito - Avete appuntamento?". Io risposi sì, avevo appuntamento con il signor Nappa... Dall'ingresso era visibile la tipografia con le grandi linotype e decine e decine di uomini in camici neri, i tipografi.

Il signor Nappa era il capo della tipografia, ma anche paziente di mio padre. Era stato ricoverato al Cardarelli anni prima, e durante un "controllo" radiografico (papà è stato primario radiologo presso l'ospedale dei Colli Aminei) promise che mi avrebbe accompagnato a "visitare" il Mattino. Eccolo il signor Nappa: occhiali spessissimi da miope, magro e sorridente che disse a Mario Acerra: "Sta con me...".

Dopo un breve giro in tipografia con il rumore assordante del piombo fuso che diventava lettere dell'alfabeto grazie alle linotype salimmo al primo piano. Tutte le stanze delle varie redazioni erano divise da grandi vetrate, le luci al neon erano fortissime e le pareti color pisello... Conobbi Giacomo Lombardi, l'anima del giornale, e nella sua stanza, subito a sinistra all'uscita dell'ascensore Tom Volpe...

Una famiglia vera in via Chiatamone 65, dove gli uscieri portavano dalle loro case in provincia, vino di Gragnano, pizze rustiche, frittate di maccheroni, treccia e tortano... e lo dividevano spesso con noi, ultimi a lasciare il palazzo perché impegnati a "chiudere" il giornale. Credevo di farcela, e aspettavo la tanta agognata assunzione quando, correva l'ottobre del 1968, Mino Jouakim mi disse che cercavano un valido giornalista in Canada... Ottimo stipendio e carriera sicura. Ne parlai anche con Gino Palumbo - a quel tempo vicedirettore del Corriere della Sera e direttore del Corriere d'Informazione, a Milano.

"Vai, ti faccio guadagnare anch'io - mi disse - a New York e Montreal puoi dare a dare una mano: pagamento ad articoli...". Partii senza pensarci. E per 5 anni negli Usa e in Canada, lavorando anche per i giornali italiani locali, il Progresso di Fortun Pope (New York) e il Corriere Canadese di Dan Jannuzzi.

Poi, nel 1972 una telefonata dal Mattino: era sempre Enrico Marcucci che mi voleva nuovamente con sé. "Ma che fai in America, fa freddo... vieni qui ti faccio guadagnare gli stessi soldi, anche di più...".

Mantenne la parola, ma ero pagato ancora a collaborazioni. Giornalista professionista "abusivo" fino al giorno in cui l'allora presidente della Cen Il Mattino avvocato Nicola Foschini mi assunse, nel dicembre dello stesso anno, "per chiara fama" e per evitare guai giudiziari perché avevo intrapreso un'azione legale dal momento che pochi mesi prima al posto mio avevano assunto un raccomandato della DC, Sergio Troise.

Ho fatto di tutto in quel palazzo di via Chiatamone, ho scritto di sport, ho fatto il capo della cronaca giudiziaria per otto anni, ho intervistato capi di stato e personaggi di grido. Primo giornalista italiano ad intervistare Ronald Reegan a Washington, e ancora in giro per il mondo a intervistare e scovare i capi della P2, Gelli, Pazienza, Ortolani, i capi mafia Buscetta e Gotti, Bardellino...

Ho raccontato terremoti e guerre. Ho avuto anche problemi, però: con le Brigate Rosse, la camorra, la mafia, "scortato" per tre anni da polizia e carabinieri, ma non ho mai pensato di lasciare. Non potevo, e non perché non avessi paura... "Se non ti fai vedere in giro e ai processi - ricordo le parole di Gianni Campili - capiranno che hanno vinto loro... No, fai lo spavaldo anche se te la fai addosso...". E così ho fatto. Non vi racconto cosa significa vivere "scortato". Non lo auguro a nessuno. Ti seguono, ti "proteggono" anche se devi andare in bagno... La tua vita non ti appartiene più... E meno male che avevo quel palazzone di via Chiatamone 65 che mi "proteggeva", i colleghi, gli amici che mi hanno sempre incoraggiato ed appoggiato nel mio allora rischioso lavoro. Dal direttore all'ultimo usciere... era una vera grande famiglia, forse la mia vera famiglia... Con l'editore che senza pensarci due volte mi "trasferì" negli Usa - nel periodo delle minacce - dove per le mie precedenti esperienze avevo ancora molti amici...

Tutti i venerdì per più di un anno volavo da Roma a New York dove era stata "nascosta" la mia famiglia grazie anche alla mia amicizia grande con Rudolph Giuliani... Ho trascorso metà della mia vita sugli aerei, dal Nicaragua al Kenya da Sidney a Santiago del Cile. Ho provato 22 volte l'ebrezza del Concorde e gli sbalzi dei C 130 "militari", sono stato decine di volte nella giungla amazzonica, nel deserto del Sahara e nei ghiacci dell'Antartide.

Sono andato al Polo Nord (e vi ho trovato, incredibile, un napoletano che faceva il barbiere) e nelle fetide paludi del Vietnam, ho girato il mondo non so quante volte. Un giorno mi trovavo a Città del Messico per il sisma che ha causato più di 60mila morti quando mi chiamarono dal giornale e il direttore mi urlò: "Fai un salto a Tel Aviv hanno sequestrato l'Achille Lauro..." ignorando forse che stavo dall'altra parte del globo. Sempre in giro per il mondo per anni ed anni ma il mio punto fermo, la mia seconda casa era sempre lì, in  via Chiatamone  65 anche se vi passavo solo pochi giorni l'anno. Un affetto rafforzatosi soprattutto al telefono dove - quando ero fuori da Napoli - passavo ore e ore al giorno a dettare i miei articoli ai "dimafonisti" proponendo i "titoli" con il redattore capo, chiacchierando di politica aziendale, o "inciuciando" su tutto e tutti.

Non sono stati solo colleghi, ma amici in quel palazzone de il Mattino, ai quali raccontavo le mie esperienze, le mie gioie, le mie soddisfazioni sul lavoro, ma anche i miei problemi, le mie angosce, e ai quali chiedevo consigli e non solo lavorativi... Dopo molti anni da quel 1972 il mio amico-editore Romanazzi lasciò e subentrò l'attuale padrone, suo cognato, l'ingegnere Caltagirone. Pochi mesi e la grande famiglia del Mattino si dissolse.

Prepensionamenti, licenziamenti, l'ossatura di quello che era stato il più grande quotidiano del Mezzogiorno, stritolata... Lasciai anch'io, nel 1997, via Chiatamone 65 quando il Mattino era all'apice con ben 245mila copie vendute al giorno, un corpo redazionale invidiato da tutti gli editori. Prendemmo strade diverse, ma tenace, intensa, dolcissima continuò ad essere la nostra "amicizia". È stata una bella vita in un giornalismo romantico e d’avventura che concedeva molte opportunità. Forse, a quei tempi, non eravamo più di mille i giornalisti in Italia e noi più giovani avevamo molti “modelli” cui ispirarci e grandi “maestri” che ci guidavano.  Erano tempi lenti in cui era più facile insegnare e trasmettere il mestiere da una generazione all’altra.

Così è passata una vita...   Ma ho lasciato il mio cuore e i miei affetti in quel palazzone di via Chiatamone 65. Giacomo Lombardi, Ciccio Bufi, Gerardo Guerra, Ciro Paglia, Mino Jouakim, Clodomiro Tarsia, Gaetano Trosino, Gianni Campili, Gianni Ramasco, Mario Caruso, Lello Barbuto, Cesare ed Enrico Marcucci, Ernesto Tempesta, Mimmo Ferrara, Lello Greco... Con Ciccio Bufi ci davamo spesso appuntamento per un pranzetto al Sarago, ricordando i “vecchi tempi”.

I nostri capelli un po’ bianchi, ma i nostri cuori giovani perché nel giornalismo avevamo vissuto una bella vita. Ciao, Ciccio, Giacomo, Mario, Lello... Siete nei miei pensieri e nel mio cuore come se non sia successo niente.  A parte quel telefono muto con tanti numeri che non potrò più chiamare.  E quel posto-auto che Franco il parcheggiatore non mi darà più perché  in via Chiatamone 65 la mia casa non esisterà più...

(di Mimmo Porpiglia)