Caro ministro Di Maio, Le scrivo questa lettera aperta sperando possa  in qualche modo venirne a conoscenza. Mi presento. Mi chiamo Federico, ho 40 anni e sono un giornalista professionista. No, la parola professionista non è una specifica per darmi qualche aria. Ci mancherebbe altro. La specifica mi viene in aiuto per dirLe che mi sono dedicato a questo lavoro “anima e corpo” da quando avevo 19 anni. In pratica, subito dopo essermi diplomato. In realtà già intorno ai 16 anni mi ero interessato a questa professione, facendo una sorta di factotum in un giornale di quartiere in una città del Sud. Come potrà immaginare, la mia generazione, così come quella che oggi ha 50 anni, ha vissuto sulla propria pelle le vicissitudini della grande crisi che ha colpito l’Europa e l’Italia negli ultimi anni.

Insomma, ho patito sulla mia pelle la chiusura di un quotidiano locale a seguito di un taglio ai finanziamenti pubblici all’editoria. In soldoni, insieme ad altri colleghi, alla segretaria, agli addetti alle pulizie, agli uomini marketing e della pubblicità ci siamo trovati da un giorno all’altro senza lavoro (senza parlare dell’indotto che gira intorno alla stampa). Licenziati. Siamo passati dal lavorare dalla mattina alla sera (a volte anche a notte inoltrata) a stare in casa in attesa di… niente. Perché quel taglio portò alla chiusura di tanti altri media e al licenziamento di tanti altri giornalisti, tralasciando ovviamente chi vi lavora all’interno di una redazione. Come potrà intuire, “ricollocarsi” era (e lo è comunque tutt’ora) praticamente impossibile.

Motivo: tanti giornalisti sul “mercato”, “mercato” però assente per la chiusura appunto dei giornali. Le assicuro, è stato un momento duro per me e mi permetto di fare da portavoce di tanti colleghi. Ora, dopo anni di enormi sacrifici, l’editoria sembrava aver dato qualche segnale di risveglio. Inutile negarlo: per il ritorno in qualche modo dei contributi pubblici all’editoria (anche se con un budget assolutamente ridotto). Adesso Lei e il Suo MoVimento tornate a battere sulla questione dei fondi ai giornali, volendoli abolire. Mi sembra di tornare indietro nel tempo, dal “governo del cambiamento” mi aspettavo altro, non appunto di vivere un déjà-vu che vuole punire la cosiddetta “casta” dei giornalisti. Magari a Lei fa comodo parlare di casta perché alla gente piace avere un nemico da combattere e di sicuro i giornalisti non sono amati in generale. Dunque, “sparare” su questa casta può fare gioco.

Ma nei miei 20 anni di “carriera” non ho visto nessuna casta avere a che fare con i quotidiani locali con cui ho lavorato. Ho visto solo ragazzi che hanno sacrificato tanto della
propria vita privata per dedicarsi a questo lavoro. Ragazzi che oggi sono diventati uomini con le responsabilità che la vita offe quotidianamente. Mi piace scrivere appunto la parola lavoro, perché di questo si tratta. Aggiungerei, neanche tanto remunerativo. Anzi. Certo, se parliamo dei guru del giornalismo nazionale, ci sta che i loro stipendi siano altamente remunerati. Così come i guru della finanza, dell’economia e della politica, come nel suo caso. Scusi se mi sono dilungato, ministro, ma torno al quibus della vicenda. Parto dal presente. Oggi sono tornato a fare quello che praticamente ho sempre fatto (tolto il periodo
della crisi per cui sono stato… fermo): scrivo, con l’obiettivo di informare la gente. Con enormi sacrifici, visto che non ho contratti con alcun giornale, ma collaborazioni che vanno e vengono. Dunque, guadagno se lavoro, non ho la possibilità di ammalarmi. E dunque pago contributi previdenziali, Iva etc...

Ma ho una dignità: lavoro. Lavoro che potrei perdere (uso il condizionale per essere
ottimista) per via della soppressione dei fondi pubblici all’editoria di cui Lei è tra i fautori. E qui lo scenario mi preoccupa e mi confonde. A lei piace molto la parola dignità (c’è anche un Decreto che lo attesta), ma che dignità può avere chi perde la possibilità di lavorare nel settore in cui è cresciuto e ha puntato tutto? Poi penso al reddito di cittadinanza: beh, a questo punto probabilmente sarei uno in lizza per questa soluzione. Ma a differenza di chi è purtroppo da tempo senza lavoro, io un lavoro ce l’ho. Mi sembra il teatro dell’assurdo: oggi rischia di dover ricorrere al reddito di cittadinanza chi la dignità ce l’ha, perché lavora appunto. Mi scusi, ministro. Dignità poi di fare cosa? Di aspettare una chiamata dal centro per l’impiego? Beh, immagino non per rientrare in un giornale o in qualche altro mezzo di informazione. Magari per pulire la strada, oppure per potare un albero, oppure per aiutare i bambini ad attraversare la strada fuori a una scuola. Perché no, ci mancherebbe altro, il
lavoro è sacro e non si rifiuta e qualunque esso sia dà dignità.

Dignità che io e tanti altri colleghi che vivono all’interno del mondo dell’informazione
abbiamo. Perché lavoriamo. Saremmo senza dignità ad aspettare un reddito di cittadinanza a casa, in attesa di una chiamata dei famigerati centri per l’impiego.

ps: probabilmente Lei pensa che non sia giusto che lo Stato dia una mano economica
agli editori. Ma allora perché lo stesso Stato aiuta finanziariamente tanti altri settori, da quello della Cultura a quello dell’industria? Se uno vale uno (uno degli slogan del Suo MoVimento) un editore dovrebbe stare a un imprenditore come un giornalista dovrebbe stare a un operaio. O no