Giovedì 22 novembre ho partecipato assieme ad altri colleghi della delegazione del Cgie, all’audizione della Commissione Affari Costituzionali del Senato sulle Proposte di Legge ivi incardinate, miranti alla riduzione del numero dei parlamentari. Nelle ipotesi di riduzione ricade anche la Circoscrizione Estero in cui si elegge, come noto, un numero fisso di parlamentari (18), di cui 12 alla Camera e 6 al Senato. Le proposte di legge mirano tutte alla riduzione consistente dei componenti di Camera e Senato. Per quanto riguarda l’estero, la riduzione che si prefigura sarebbe di 1/3, 8 senatori e 4 deputati (per un totale di 12). Le motivazioni su cui si basano tali proposte sono essenzialmente la "riduzione dei costi della politica" e in seconda istanza, la "semplifiazione" dei lavori parlamentari.

Come ha argomentato il Presidente Emerito della Corte Costituzionale Onida, intervenuto all’audizione, la prima di queste ragioni sarebbe altrimenti approcciabile con la semplice riduzione degli emolumenti di deputati e senatori. Ma nelle proposte presentate non viene presa in considerazione. Mentre forse costituirebbe una soluzione che riavvicinerebbe in modo significativo i nostri rappresentanti in Parlamento alle condizioni degli altri cittadini e sconsiglierebbe alcuni dall’arrembaggio alla candidatura. Quanto alla seconda ragione, lo snellimento e semplificazione dei lavori parlamentari, essa ha a che fare con la necessità di ottimizzare e accelerare le procedure di "governance", la stessa a cui si era affidato l’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi, quando propose il Referendum Costituzionale che si svolse nel dicembre del 2016 e i cui esiti sono noti. L’esigenza di ottimizzare la "governance" implicava la riduzione della funzione parlamentare a vantaggio di quella dell’esecutivo, cioè del Governo. In quel caso con la cancellazione del Senato. Gli italiani rifiutarono quella proposta.

La partecipazione democratica, i tempi del suo svolgersi, non possono essere subordinati a priorità esterne, perché ciò significherebbe la definitiva resa della democrazia, almeno come essa è definita nella nostra Costituzione: la sovranità appartiene al popolo. Nelle argomentazioni che la delegazione del Cgie ha sostenuto per mantenere integro il numero dei parlamentari eletti all’estero (Michele Schiavone e Norberto Lombardi), vi è stata la giusta sottolineatura che il rapporto tra popolazione residente ed eletti che si rilevava in Italia e all’estero, si è notevolmente modificata negli ultimi 12 anni: mentre nel 2006 il rapporto tra singolo/a eletto/a ed elettori era di 56.000 elettori in Italia e oltre 150.000 all’estero, oggi questa proporzione si è ulteriormente ampliata, poiché lo stock di emigrazione italiana è passato da 3,6 milioni di persone (nel 2006), a 5,7 milioni (2018) ed è analogamente cresciuto il corpo elettorale. A questi si aggiungono poi i migranti che non figurano nelle Anagrafi Consolari o nell’AIRE, e che sono un multiplo di quanto l’Istat riesce a censire sulla base delle cancellazioni di residenza: molto probabilmente ben oltre un milione di persone, di cui circa il 70-80% sono elettori attivi.

Colpisce che nel dossier predisposto dal Senato e nei tre diversi disegni di legge destinati alla modifia degli Art.56 e 57 della Costituzione (Quagliarello, Calderoli e Patuelli e Romeo) non sia presente alcun riferimento a questa evoluzione. Il Senato ignora totalmente la dimensione della nuova emigrazione. Nel 2001, quando su varata la riforma costituzionale che introdusse la Circoscrizione Estero (Art. 48, 56 e 57) e poi il voto per corrispondenza, ci trovavamo di fronte ad una presenza ormai consolidata di più o meno antiche collettività italiane stabilizzate all’estero (poco più di 3 milioni di persone) che rivendicava da decenni la possibilità di partecipare alla vita politica del Paese esprimendo il voto senza dover rientrare in Italia ad ogni consultazione. Il numero limitato di parlamentari fu definito come riconoscimento (tardivo) di questa storica presenza e la mediazione portò ad individuare un numero di parlamentari che non mettesse in discussione gli "equilibri politici nazionali". Ma con la ripresa dei flussi emigratori ci troviamo di fronte ad uno scenario del tutto differente, con il raddoppio della presenza emigratoria italiana che porta ad un'inedita situazione: mentre la popolazione all’interno dei confini sta diminuendo, quella al di fuori cresce al ritmo di oltre 300 mila all’anno.

La domanda è: queste persone hanno il diritto di esprimere pienamente il proprio diritto di partecipazione politica, o solo per il fatto di essere stati costretti dalla crisi ad andare all’estero, dispongono di un diritto dimezzato? Le previsioni di diversi centri di studio e della stessa Istat per i prossimi decenni sono di una ulteriore diminuzione di popolazione (da 5 a 7 milioni all’interno dei confini al 2050-60) e parallelamente di un aumento dello stock di emigrazione che sta dunque tornando ad essere un dato strutturale del paese. La domanda potrebbe quindi essere formulata anche in un altro modo: cosa facciamo in particolare con i nuovi emigrati ? Li lasciamo andare e riduciamo loro il diritto di voto? L’uguaglianza del voto è una delle prerogative fondamentali dalla Costituzione. Non può darsi un voto di peso differente tra diverse collocazioni territoriali o situazioni personali. Se l’emigrazione, seppure provvisoria e precaria, è destinata a crescere e la popolazione interna a decrescere, come possiamo garantire la parità del voto dei cittadini italiani qualunque sia la loro condizione?

6 milioni di cittadini all’estero corrispondono al 10% della popolazione. Una popolazione pari a quella di regioni come il Lazio o la Campania. Se vi consideriamo anche la parte nascosta che non si iscrive all’Aire o non è censita alle Anagrafi Consolari, siamo più probabilmente vicini ai 7 milioni; cioè la seconda regione (virtuale) dopo la Lombardia. Un corpo elettorale a cui spetterebbero oggi circa 50 deputati e 25 senatori. Nell’ipotesi di una riduzione al 50% dell’intero parlamento, circa 25 deputati e 12 senatori. Di fronte a queste dimensioni dovremmo aggiornare la riflessione generale sul voto all’estero e farci latori di proposte coerenti con ciò che conosciamo. La riserva (bloccata) di parlamentari definita dalla riforma costituzionale del 2001 e dalla successiva Legge 459 non pare più sufficiente a garantire un equilibrio soddisfacente tra voto all’estero e voto in Italia. L’impressione è che porsi a strenua difesa del piccolo mondo antico non ci aiuta purtroppo a far emergere le nostre questioni al livello che meritano nella discussione nazionale. La logica su cui fu costruita la Circoscrizione Estero quasi venti anni fa appare ampiamente superata.

I tempi sono maturi per una discussione che prenda atto delle modificazioni intervenute e di quelle che interverranno. Se le riforme debbono fondarsi sulle situazioni concrete ed avere una loro ragion d’essere storica, è evidente che i connazionali all’estero debbono poter partecipare integralmente alla vita politica del paese e pesare ciò che debbono pesare, tanto più se il nuovo esodo è una conseguenza di preminente natura economico-politica che non riguarda soltanto loro, ma l’intero Paese. Per capirci, il 10% dell’elettorato deve pesare il 10%, non di meno e la specificità della loro condizione deve trovare analogo riconoscimento a quanto avviene, dentro i confini, con le specificità regionali. Considerazioni analoghe riguardano il versante immigrazione: è un dato che emigrazione + immigrazione costituiscono, insieme, circa il 20% della popolazione. A meno che non si propenda per una società fondata su apartheid differenziate, questi due nodi andrebbero affrontati nell’ambito della discussione sulla riforma del numero dei parlamentari: cittadinanza, forma dello Stato, prospettive del Paese, ne costituiscono elementi indissolubili.

RODOLFO RICCI
VICE SEGRETARIO CGIE