TUTTI I GIORNALI PRENDONO SOLDI PUBBLICI

Falso. Dopo anni di propaganda, pochi giorni fa è stato lo stesso sottosegretario Vito Crimi ad ammettere che su 18mila testate registrate in Italia, solo 150 prendono contributi pubblici (Crimi al Gr1 Rai del 16 dicembre). Come spieghiamo qui, solo editori con determinate caratteristiche accedono al fondo per il pluralismo. I cosiddetti "giornaloni" (Repubblica, Corsera, Fatto, etc.) sono quotati in borsa e hanno normali azionisti che li finanziano. Usufruiscono (ma solo fino al 2019 se passa la manovra) di una trentina di milioni in agevolazioni e sconti per spese definite da diverse leggi.

L’EDITORIA È IL SETTORE CHE RICEVE PIÙ FONDI PUBBLICI

Falso. Più volte all’inizio del suo mandato, il sottosegretario Crimi ha definito l’editoria come "il settore più assistito da parte dello stato". Il sottosegretario calcolava una spesa pubblica di 3,5 miliardi di euro in 15 anni. Al di là della veridicità tutta da verificare di tale somma, basti un dato a smentire la sua affermazione: i sussidi pubblici alle fonti energetiche fossili dannose per l’ambiente (gas, carbone, petrolio, ecoballe, etc.) sono pari a 11,5 miliardi all’anno. Il dato è ufficiale, fornito dal Ministero per l’Ambiente. Nel programma 5 Stelle c’era l’abrogazione di questi sussidi, ma nell’azione di governo e nella manovra non ce n’è traccia.

IN ITALIA NON ESISTONO EDITORI PURI

Parzialmente vero. Secondo un post apparso il 13 novembre sul blog delle stelle, "la stragrande maggioranza dei principali giornali italiani a tiratura nazionale è posseduto da editori in pieno conflitto di interessi". L’affermazione è inesatta. Secondo un fact checking dell’Agi, tra le più importanti testate italiane alcune sono pubblicate da editori sostanzialmente "puri", cioè che non hanno interessi rilevanti fuori dall’editoria (testate Rcs e testate Riffeser), altre da editori "impuri" (gruppo Gedi e gruppo Caltagirone). Guardando all’estero, invece, in Francia purtroppo gli editori "puri" non esistono proprio, mentre in Germania sono la norma. Mista invece la situazione in Gran Bretagna e Stati uniti. Per paradosso, infine, i tagli all’editoria danneggeranno sicuramente molti editori "puri", cioè le testate pubblicate dalle cooperative di giornalisti, che per definizione non fanno altro che il proprio giornale, rivista o radio.

I GIORNALI CHE PRENDONO CONTRIBUTI PUBBLICI DIPENDONO DAL GOVERNO

Falso. Proprio la varietà di testate che attingono al fondo per il pluralismo dimostra che non esistono giornali di per sé governativi: Avvenire è diverso da Libero, che è diverso dal manifesto o dal Primorski. La riforma Lotti aveva affidato al governo un puro ruolo amministrativo, sottraendo alla politica il potere di decidere volta per volta gli stanziamenti. Al contrario, è proprio l’intervento di questo governo nella manovra che stravolge d’imperio, cancellandola, la libertà di informazione.

IL TAGLIO AI GIORNALI È NEL CONTRATTO DI GOVERNO

Falso. Proprio la Lega aveva escluso tale possibilità. Ribadendola poi in decine di interviste e interventi pubblici. Dimostrando la sua contrarietà, peraltro, nel primo passaggio alla camera della manovra, dove sia il relatore che il rappresentante del governo (entrambi leghisti) avevano espresso parere contrario all’emendamento 5 Stelle, provocandone il ritiro. Ora, nel passaggio al senato, sarebbe solo un voltafaccia della Lega a dare il via libera al taglio.

L’EMENDAMENTO PATUANELLI ABOLISCE IL SOSTEGNO PUBBLICO ALL’EDITORIA

Falso. Lasciando da parte la questione del canone Rai, l’emendamento 5 Stelle non abolisce affatto il fondo per il pluralismo, che rimane intatto intorno ai 180 milioni. Taglia i fondi fino a vietarne l’accesso, invece, solo a una ventina di testate più grandi sulle 52 ammesse al contributo. È perciò un emendamento "ad testatam" che colpisce voci diverse ma tutte critiche o scomode per la maggioranza. Anzi, con l’ultimo comma del testo, si crea a Palazzo Chigi una specie di "fondo Crimi" a totale disposizione della presidenza del consiglio, al di fuori della legge e del controllo del parlamento, da destinare a vaghi progetti di "soggetti pubblici e privati" non meglio identificati per promuovere la "cultura della libera informazione plurale, della comunicazione partecipata e dal basso, dell’innovazione digitale e sociale, dell’uso dei media". La discrezionalità del governo nell’utilizzo dei fondi pubblici (che infatti restano) sarebbe massima.

CON L’EMENDAMENTO PATUANELLI LO STATO RISPARMIA

Falso. Non un euro viene tolto al fondo per il pluralismo. Viene invece vietato l’accesso a determinate testate (vedi sopra).

SENZA ORDINE DEI GIORNALISTI I PRECARI STANNO MEGLIO

Falso. L’ordine dei giornalisti è un ente di diritto pubblico regolato dalla legge. Abolirlo lascerebbe il campo ad associazioni di diritto privato auto-organizzate. Nulla impedisce che nascano più o meno "forzatamente" associazioni di giornalisti vicini a un editore piuttosto che a un altro. Tipo: se vuoi scrivere qui ti fai rappresentare dall’associazione X. Con tutto quel che ne consegue. L’ordine dei giornalisti, accogliendo un invito dello stesso Crimi, ha presentato al governo una proposta di autoriforma che attende risposta.

GLI EDITORI DI GIORNALI SONO INCAPACI DI INNOVAZIONE

Falso. Non c’è settore industriale cambiato più della carta stampata. I fogli che avete in mano possono sembrarvi identici a quelli di 30 anni fa. Ma il modo di produrli non ha nulla a che vedere con quello dei nostri nonni. Un grande giornale non è un pezzo di carta inchiostrata, è una struttura professionale e industriale in grado di far scrivere un essere umano su qualsiasi argomento in qualsiasi parte del mondo in qualsiasi momento dell’anno su diversi supporti. Una struttura "pesante", simile a quella della protezione civile, sempre pronta in caso di emergenza.

LA CARTA È MORTA, IL FUTURO È DIGITALE

Falso. Gli editori della carta stampata sono stati travolti dalla "rivoluzione digitale" ma l’85% dei ricavi viene ancora dalle copie cartacee. Ogni giorno si vendono 2,8 milioni di copie di giornali, che hanno 16,2 milioni di lettori. La rivoluzione digitale, non appena la banda sarà disponibile, travolgerà anche le televisioni. Pubblicare un articolo su web non ha ostacoli tecnici, presto questo ostacolo cadrà anche per i filmati. I primi segnali di questo nuovo trend (vedi Netflix) sono già visibili. Inoltre, a parte i "Gafa" (acronimo per Google, Apple, Facebook e Amazon) e gli "Ott" (i cosiddetti: "Over the top") l’editoria digitale è priva di innovazione. Il 98% dei giornali on line italiani dipende solo dalla pubblicità e fattura meno di 21mila euro all’anno (dati Agcom).

BASTA IL LIBERO MERCATO AD ASSICURARE IL PLURALISMO

Falso. Non c’è settore culturale che non sia sostenuto – nelle forme più varie – da parte dello stato: libri, cinema, teatri, opere liriche, musei, mostre, monumenti. Nessuno di questi vivrebbe solo vendendo biglietti. L’informazione rientra tra i diritti costituzionali dei cittadini che lo stato deve garantire. Al contrario, il settore dell’editoria è in preda a fenomeni di concentrazione in ogni parte della filiera: 2 gruppi (Rcs e Gedi) diffondono da soli quasi la metà delle copie. In molte zone del paese i distributori locali si riducono a uno per regione, i grandi distributori nazionali sono appena 2-3. Il mercato, da solo, favorisce gli oligopoli. Nel caso dell’informazione, questo è tipico di regimi autoritari, e non di democrazie.

I CONTRIBUTI PUBBLICI ESISTONO SOLO IN ITALIA

Falso. A parte il canone per la tv pubblica (vedi Rai o Bbc solo per fare due esempi), forme di sostegno diretto o indiretto all’informazione esistono nella gran parte dei paesi europei, dalla Francia al Lussemburgo. Il Canada nella sua manovra 2019 ha stanziato oltre 600 milioni di dollari e un dibattito sulla necessità della protezione pubblica di testate soprattutto locali è aperto anche negli Stati uniti, vista l’ecatombe di giornali statali o di contea. Ci sono zone dell’Occidente dove, semplicemente, l’informazione e il controllo democratico e trasparente del potere non esiste più. L’Italia non può finire tra queste.