Di Franco Manzitti

Si sprecano elogi alla bellezza del nuovo ponte, al “candore” di Renzo Piano, il suo primo disegnatore, mentre quello “maledetto” è oramai sotto assedio: gli stanno costruendo intorno la gabbia di gru e carri ponte che lo distruggerà pezzo a pezzo, in questo inverno di gelo annunciato, perfino di neve, qui in Valpolcevera dove tutto si compie. Demolizione&Costruzione, atto unico di un capitolo che incomincia ora e ha già una data finale perfetta: 15 aprile 2020, quando il nuovo ponte, “tracciato” appunto da Piano, costruito da Salini Impregilo, Fincantieri, Italferr, controllato da RINA, sarà percorribile........Dice così “percorribile” il sindaco-commissario Marco Bucci, grande cerimoniere della seduta nella quale quell'atto unico viene firmato da tutti i contraenti, costruttori e distruttori, una parata che mai si era vista nel salone di rappresentanza di Palazzo Tursi, primo piano, dove una volta si prendevano le decisioni della giunta comunale genovese ed ora si celebrano cerimonie, dibattiti, presentazioni, commemorazioni...

Oggi è diverso, perchè si firma, si annuncia, si battono le mani, si firmano contratti, si pronunciano discorsi cui la retorica e gli elogi sono concessi a piene mani. E come è possibile fare diversamente? Sono cinque mesi e due settimane dalla tragedia ed eccolo qua il piano di guerra nella città dolente che ha saputo reagire. Il vate è Renzo Piano, perfetto nella sua ripetitività rispetto al suo primo gesto di disponibilità, quando il ponte maledetto era appena spezzato e lui era arrivato con il disegno numero uno, il primo modellino, il primo rendering: quel tratto sobrio, deciso, netto, i 43 piloni, e la definizione di solidità, sobrietà e la misura infinita della “durata”: “Durerà mille anni”_ come per esorcizzare quel crollo solo 51 anni dopo, il tradimento, la pugnalata secca del 14 agosto. 

Gli attori, costruttori, demolitori sfilano uno per uno e usano lo stesso linguaggio di entusiasmo e di fermezza. 

Chi non crede che tutto si possa fare entro quel 15 aprile, nuovo Natale di Genova, passando per il 31 marzo 2019, fine dela demolizione, si è già sfilato dall'impresa, come la potente “Vernazza”, grande impresa gruistica, che doveva fare parte del pool già arrampicato sui tronconi da giorni a misurare, scarnificare, smontare i pezzi di quel che resta, che è ancora tanto, uguale da cinque mesi e due settimane e incombe come qualcosa che sta per esplodere, ma sarà un'esplosione dentro alla rete della protezione, in mezzo a quella valle che ora guarda in quella direzione, temendo un po' il grande mostro del cantiere, montato su come un grande puzzle di gru, torri, scale, spazi a terra, viaggi di autocarri, mobilitazioni di forze lavoro che arriveranno a 500 uomini, un formichio dove c'era la lapide della distruzione. 

E' come un nuovo viavai sotto il ponte e intorno, che cinque mesi fa erano i soccorsi disperati, gli scavi nel monte delle macerie, gli eroismi dei pompieri, poi sono stati le passerelle dei potenti, le commiserazioni, i lutti, poi il cerchio stretto delle zone rosse, nere e arancioni, con il salire e lo scendere degli sfollati, di quelli della “terra di mezzo”, che continuano a vivere lì perchè non sono abbastanza sotto il ponte da portarli via e non sono abbastanza là da stare lontano dal maxicantiere.

“Vernazza” ha temuto che il tempo ritmato dal supercommissario Bucci sia troppo stretto per eseguire lo smontaggio sotto la spada di Damocle di penali che costerebbero 20 milioni di euro al mese, che ci siano troppi interrogativi, il clima cattivo, la magistratura esigente nel porre sequestri, fermare il cantiere per cercare nelle viscere un passato di colpe, mentre qua tutto spinge verso il nuovo. E allora niente firma sotto il contatto unico, ma nessuna grana, come anche le imprese sconfitte nell'assegnazione dei lavori di costruzione.

Non hanno paura gli altri contraenti della sfilata a Tursi nel palazzo del Comune e usano toni che non si erano mai sentiti, come Antonio Salini, il grande costruttore che racconta questa sfida, non certo la più impegnativa professionalmente per il suo impero di cemento e acciaio disteso in 46 Paesi nel mondo, come un segnale da dare non solo a tutta Italia, ma al mondo intero: ecco l'Italia che sa risollevarsi, che è in grado di costruire il ponte nuovo, bello, efficiente, rapido.

O come Giuseppe Bono, l'amministratore Fincantieri, una grande azienda, genovese Doc,  che non aveva mai costruito ponti, ma che ora, dopo Genova, ne costruirà uno anche in Turchia. Potenza di questa tragedia, che si rovescia in una grande operazione di rilancio della genovesità, dell'orgoglio sbandierato forse anche contro i dubbi che  alitano qua e là, mentre il treno di Bucci sindaco-commissario e di Giovanni Toti, il presidente della Regione, anche commissario all'Emergenza, viaggia a tutta velocità con quei toni celebrativi della cerimonia. 

Sarà questo progetto, “tracciato” da Renzo Piano, sul quale ora lavorano in tanti, non solo Salini Impregilo, Italferr e Fincantieri, il meglio che si poteva fare in questo momento, alla modica cifra di 244 milioni, con quel tempo di esecuzione fino al fatidico 15 aprile 2020? O, in fondo, i progetti di Cimolai, grande ditta veneta, con la firma di Santiago Calatrava, non avevano più respiro, erano forse meno essenziali, ma un po' più “forti” per questa valle, segnata per 51 anni dalla geometria strallata di Riccardo Morandi? 

Hanno voluto la semplicità per cancellare del tutto l'ardire del ponte maledetto, quella sua sfida con poche campate, gli stralli che piovevano dal cielo, il rebus dell'acciaio affogato nel cemento compresso. E poi perchè nei poteri del commissario e del suo staff decisorio c'è stato anche quello di non dare spiegazioni sulla scelta?  “Next question”_ aveva seccamente e ironicamente replicato Bucci, nel giorno del grande annuncio, ai giornalisti che gli sollecitavano una spegazione: perchè il progetto di Piano e non quello di Cimolai-Calatrava, che costava di meno, era più veloce ed era realizzato da un'azienda che ha costruito centinaia di ponti nel mondo?

I dubbi sono solo spifferi nella gelida Valpolcevera dell'inverno crudo, che arriva e nella città un po' ammaliata dal pragmatismo inesorabile di Bucci, dalla sua marcia senza soste verso l'obiettivo.

Alla grande cerimonia non sono venuti, anche se molto attesi, il premier Giuseppe Conte e il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli e, quindi, la figura di spicco è stata quella del vate Renzo Piano, disegnatore e supervisore, garante non solo della internazionalità dell'opera, ma anche della sua genetica genovse, cui l'architetto tiene sopra ogni cosa e alla quale probabilmente fa risalire l'essenzialità del nuovo ponte, senza svolazzi, sei corsie piazzate su un piano-nave, piatto e diretto, solo spostato venti metri più a valle, per evitare che i piloni di sostegno interferiscano con la selva di tubature, oleodotti che scorrono nella pancia della Valpolcevera, un nuovo ponte solo modificato nel raggio di una grande curva, più larga rispetto all'edizione precedente, per rallentare la velocità dei veicoli che percorreranno il tragitto oggi spezzato nel vuoto del crollo.

Chissà se i due grandi assenti temevano qualche domanda più ficcante sulla scelta del costruttore che è ascrivibile al supercommissario, ma che è stata presa evidentemente d'accordo con il governo giallo verde, molto più giallo che verde in questo caso? 

Sono i grillini che hanno deciso tutto dall'attimo dopo il crollo, è loro il ministro competente. Chissà come mai nulla è cambiato in questi lunghi mesi di travaglio, tra i primi annunci del vice premier Di Maio, che già il giorno dopo la sciagura identificava in un'impresa dello Stato quella deputata alla ricostruzione, senza deflettere mai da questa linea, fino alla convocazione in Regione del leader Fincantieri, con il solo errore-bestemmia di avere chiamato anche l'amministratore delegato di Autostrade, Giovanni Castellucci, cioè il diavolo, il nemico. 

Un errore che costò a Toti la nomina a supercommissario alla ricostruzione e anche politicamente qualcosa di altro. Intanto l'inimicizia esplicita e sempre manifestata tra lui e Toninelli.

Ma tutto questo non conta più: la città ferita è oramai proiettata alla grande cavalcata della Distruzione&Ricostruzione, appena cominciata. Il ponte nuovo prima di tutto e la ricomposizione di tutto il quadro infrastrutturale genovese e ligure. 

Tre giorni dopo la cerimonia, 47 categorie produttive, con in testa Confindustria e Camera di Commercio, firmano nella magica sala degli specchi della strada dei Re, via Garibaldi, a pochi passi dal palazzo della cerimonia stessa, un documento di coesione perchè sia realizzata la Gronda, la grande tangenziale genovese destinata a liberare la città dallo strangolamento del traffico, grande opera già progettata, per la quale si paga già una quota nei pedaggi autostradali, qualcosa che esisteva prima del crollo del ponte. 

Nella nobile sala seicentesca  si crea una specie di Tavola Rotonda con i Cavalieri che giurano un patto comune per riscattare l'isolamento genovese, malgrado la vecchia contrarietà dei Cinque Stelle alle grandi opere, presto mitigata dal quasi contestuale annuncio del superondivago vice premier Di Maio di una riformulazione nazionale del piano intrastrutturale: dalla Tav Torino-Lione al Terzo Valico  e, appunto,  alla Gronda e a tutto il resto che sta bollendo nel pentolone giallo verde.

E allora c'è come un filo che mette insieme tutto e che corre tra Genova, il ponte nuovo, le altre infrastrutture e il Governo di Roma, che raccoglie la sfida dei SI Tav, ma sa come anestetizzare le opposizioni. 

Genova “celebra” Distruzione&Ricostruzione del ponte e nella domemica successiva non va dietro alla piazzata che era stata preparata per spingere lo sviluppo della città dalle associazioni spontanee e dallo stesso nucleo delle madamine di Torino, calate nella Superba con lo stesso intento che sotto la Mole aveva per ben due volte radunato decine di migliaia di persone. 

In  piazza De Ferrari, ombelico genovese, in questa domenica di sole rigido, non arrivano più di duecento partecipanti a riverire le signore torinesi, un po di borghesi illuminati, qualche “quadro” del Pd agonizzante, il coordinatore regionale di Forza Italia, Sandro Biasotti, una dozzina di sindaci di piccoli comuni, una selva di telecronisti e qualche passante incuriosito davanti a due sole bandiere, quella europea e la Croce di san Giorgio, stendardo della fu Repubblica genovese.

Niente di più. Doveva essere “la piazzata genovese”, è stato meno di un flash mob, firmato da tre associazioni, “Che l'Inse”, “Emergente”, “Nuova Antigone”, fatte di  nuove generazioni coraggiose, in una città un po' imbalsamata. 

Ma forse oggi a Genova non si può disturbare il manovratore, cioè l'asse tra il supercommissariato e il governo giallo verde, dove il link è rappresentato da Edordo Rixi, il vice ministro delle Infrastrutture, genovese e leghista, l'uomo che ha cucito e ricucito il decreto Genova.

Una piazzata sarebbe stata una mossa troppo aggressiva nei confronti di chi ha portato a Genova quel decreto, le centinaia di milioni per rifare il ponte, ricoverare gli sfollati, risarcire i danneggiati, sanare tutte o quasi le ferite. E così né Confindustria, né Camera di Commercio, nessuna forza produttiva hanno aderito alla mobilitazione, nessun leader, neppure il Toti che il sabato precedente era andato a Torino tra i quarantamila della seconda manifestazione piemontese.

Ora Genova aspetta solo il 15 aprile 2020 e scruta le gru che “circondano” il ponte maledetto, pronto a esalare l'ultimo respiro.