E venne il giorno in cui il Signore con la calma dei giorni nervosi chiamò Ambrogio e Ambrogio venne. E il Signore lo guardò a lungo e Ambrogio molto temette l’ira del Signore.
E allora il Signore disse: “Laggiù, sul Naviglio, mi dai ancora molti pensieri”. E Ambrogio disse: “Sì, mio Signore”. E il Signore disse: “Con questo faccino e la barbetta che lo incornicia, e il tuo parlare che è dolce come il miele, così è scritto, tu vescovo di Milano trascuri quello che a Milano succede”. E Ambrogio rispose: “Sì, mio Signore”.

E il Signore trattenne la collera perché Ambrogio così era fatto, dolce come il miele, e il Signore disse: “Ambrogio, perché l’Inter dà tanti pensieri?”. E Ambrogio chinò il capo e disse: “Così è, mio Signore, da cento e più anni”. “Da centoundici anni” precisò il Signore. E in quel momento passò Gennaro che sempre si lamentava, e Gennaro ne aveva motivo perché tre volte all’anno gli si squagliava il sangue nelle vene (ma ‘na finta ‘e Maradona?) e gli avevano tagliato la testa su una pietra di Pozzuoli.

E il Signore disse: “Gennaro di che cosa ti lamenti oggi?”. E Gennaro rispose: “La città di Ambrogio insulta sempre ‘o popolo mio del golfo azzurro, ma ora Firenze insulta e ‘ngiuria la mia persona medesima”. E il Signore disse con la pazienza del Signore: “Sei il più popolare di tutti, Gennaro, perché ti lamenti?”. E Gennaro si allontanò lamentandosi. E Ambrogio rimase al cospetto del Signore e il Signore disse: “Io ho scacciato i mercanti dal tempio, chi ha scacciato Icardi dal tempio dell’Inter?”.

E fu allora che Gennaro tornò sui suoi passi per vendicarsi dell’uomo di Certaldo che aveva fatto male alla squadra d’’o popolo d’’o golfo azzurro e accusò: “È stato l’uomo di Certaldo”. E il Signore disse: “Venga a me l’uomo di Certaldo”. E s’avanzò con fare pensoso l’uomo di Certaldo che a nessun uomo di Certaldo somigliava, ma aveva sembianze orientali di monaco buddista, e aveva il cranio puro e sgombro, e aveva il viso color marrone delle tuniche dei bonzi tibetani. E il Signore disse: “Mettiamo subito le cose in chiaro e non su Sky”. E il bonzo di Certaldo disse: “Lautaro sii, mio Signore”.

E il Signore lo invitò a parlare, e il bonzo parlò con linguaggio aulico e anestetico, perché questo era il suo linguaggio, ed espose arabeschi di parole e pentole a pressione di concetti, e fu caustico e dolce stil novo, evoluto e chiaroscuro, rotondo e ottagonale, e smussò gli angoli e girò e rigirò il ragionamento come usano fare i napoletani col ragù. E dopo che l’uomo di Certaldo parlò della fascia del capitano e squittì sul nome del capitano, e rimase nella confusione del momento, e tra il dire e il fare qualcuno deve fare, il Signore chiamò la pubblicità e licenziò l’uomo di Certaldo. E l’uomo, allontanandosi, disse definitivamente: “L’io non deve prevalere, tutto il resto è Noi”.

E il Signore chiese ad Ambrogio: “Chi altro, Ambrogio?”. E Ambrogio disse: “Un uomo dagli occhi meridionali e vestimenti milanesi”. E il Signore domandò: “Chi è costui?”. E Ambrogio disse con un fil di voce: “Piero”. E s’avanzò il lombardo Piero, ed egli era oltre la metà del cammin di nostra vita, e aveva testa tonda e baffetti longobardi, grandi occhi manageriali e un parlare su vari toni, dal soffuso al metallico, e parlando scuoteva la magra persona. E il Signore gli chiese: “Perché scuoti la testa, Piero? Sei tu un uomo ondivago?”. E l’uomo rispose: “Navighiamo con la Beneamata in mare aperto, mio Signore, e abbiamo difficoltà sentimentali”. E il Signore disse: “Perché avete scacciato Icardi dal tempio?”.

E l’uomo disse: “Dolorosa fu la decisione e chi la scrisse. Ma c’è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. E l’uomo si allontanò sotto il peso del vaso traboccato e dell’intera volta nerazzurra, e a Piero fu dato il nome di Atlante. E venne l’uomo varesino della borgata di Avigno, e la sua persona era placida e robusta, e il Signore disse: “Questo è un uomo”. L’uomo prestò al Signore un sorriso educato con l’obbligo del riscatto e disse al Signore: “Pugno juventino in guanto interista”. E il Signore disse: “Tu sarai vescovo e cardinale per ricondurre l’Inter sulla retta via”. E l’uomo di Avigno promise: “Sarò gesuita e benedettino”. E il Signore gli ricordò la regola benedettina: “Obbedienza, silenzio-stampa e umiltà”.

E il Signore chiese: “Hai tu scacciato Icardi dal tempio?”. E l’uomo di Avigno fu schietto e rispose in cinese. E il Signore apprezzò la schiettezza e la nuova cultura dell’uomo di Avigno. E l’uomo disse: “Le parole sono pietre, le parole cinesi sono di seta”. Ambrogio, che era rimasto sempre in silenzio, si commosse e chiese umilmente: “Come riportiamo il ragazzo d’Argentina all’ovile nerazzurro?”. E arrivò l’angelo-stampa del Signore e disse: “Signore, il ragazzo argentino continua a mangiare mele”. E l’uomo di Avigno spiegò in comproprietà con l’angelo-stampa: “Mauro è come Adamo e la sua Eva bionda lo tenta con le mele dei rinnovi contrattuali. E il ragazzo mangia ogni volta la mela. Mangia la mela e gioca male”.

E l’angelo-stampa aggiunse: “E allora dribblerà col sudore della fronte e partorirà gol con dolore”. Ma il Signore misericordioso disse: “L’Inter non è il paradiso terrestre”. E l’uomo di Avigno disse: “Non l’abbiamo scacciato, oh Signore, gli abbiamo solo sottratto la fascia di capitano”. E il Signore chiese: “È grave?”. E l’uomo di Avigno rispose: “Chi perde la fascia, ci rimette la faccia”. E ritornò Gennaro che aveva sempre un sassolino milanese da togliersi dai sandali napoletani e disse: “Gente crudele, gente del nord. A Mauro hanno tolto la fascia all’ora di pranzo e il ragazzo ha detto stop: Basta del Capitano”.

E l’uomo di Avigno aggiunse: “Gli abbiamo tolto la fascia, non i tatuaggi, e Mauro si è rifiutato di venire con noi a Vienna”. E il Signore, curioso, chiese: “Quanti tatuaggi ha il ragazzo d’Argentina?”. E l’angelo-stampa del Signore rispose: “Tutto il suo corpo è tatuato. Ha un grande leone tatuato su tutto il petto e, sulla coscia destra, oh Signore, ha il tuo viso con una corona di spine”. E il Signore disse: “Non è il posto più elegante”. E Ambrogio disse: “È solo un ragazzo”. E non ci fu nient’altro da dire, ma l’angelo-stampa del Signore disse: “Per l’Inter, laggiù, ci vorrebbe un intervento divino”. E il Signore tacque.

E, giù, a Milano, Steven Zhang di Nanchino consultò Confucio, ma non ebbe risposte adeguate. E Massimo Moratti veleggiò col ciuffo candido verso gli scribi, scosse la testa e il ciuffo e si dichiarò contrario alla fascia di capitano tolta al giovane argentino, e ancora in lui vinse l’amore sulla disciplina come ai bei tempi dei suoi innamoramenti nerazzurri perpetui. E un uomo, nel frattempo, passeggiò per il centro della città e fu visto con sospetto e desiderio, e l’uomo fu riconosciuto per essere tale Antonio Conte, e molti si sorpresero, e taluni mangiarono una foglia. E allora il saggio disse: i Conte si faranno alla fine.

Mimmo Carratelli