C'è un popolo che è andato a votare in massa ai gazebo del Pd, oltre ogni previsione e aspettativa. E non è cosa di poco conto. E c'è un nuovo segretario, Nicola Zingaretti, nel pieno delle sue funzioni, non condizionato dal gioco delle correnti, legittimato da una larga investitura, forte, col suo 65 per cento, di una maggioranza assoluta nel partito che consentirà di aprire una "nuova stagione". E neanche questa è cosa di poco conto, in un partito finora paralizzato dal gioco delle correnti, dalle ossessioni politiciste, da una iperuranica lontananza rispetto al paese reale.

Parliamoci chiaro. Questa domenica, una bella domenica di democrazia, dice che il popolo, come spesso accade, è più avanti di chi lo dirige, o lo ha diretto finora. O non lo ha diretto, paralizzato da un lutto non elaborato, chiuso nel fortino di certezze crollate. È sbagliato leggere questo risultato come consenso al Pd, e alle sue poco entusiasmanti primarie, e leggerlo solo in chiave interna, con le lenti degli equilibri di potere, perché il senso politico di ciò che è accaduto è che una moltitudine di anime democratiche alla ricerca di un corpo ha chiesto una sinistra capace di corrispondere a un gigantesco bisogno di alternativa, dopo un anno di governo gialloverde. Aprendosi, rinnovandosi, cambiando non solo la "comunicazione", ma la politica. Anzi, ricominciando a fare politica, con umiltà e senso di realtà.

In questo senso queste primarie del Pd sono già qualcos'altro che affida al Pd una responsabilità e una direzione di marcia. A parità di affluenza, quelle di due anni fa rappresentarono un voto "statico" di consenso a una classe dirigente che si era arroccata in un fortino, incapace di leggere il 4 dicembre e avviata al bis il 4 marzo. Queste, invece, rappresentano un voto "dinamico", di cambiamento, in cui sono tornati a partecipare mondi delusi, chiedendo una svolta radicale per contrastare questo governo. Bastava fare un giro per i gazebo per intercettare non solo la militanza in senso stretto, ma tanti delusi che avevano voltato le spalle al Pd, magari avevano votato per i cinque stelle o erano rimasti a casa, e sono andati ai gazebo perché "con questo governo non se ne può più": le sue politiche securitarie, l'arroganza del potere, la cultura del nemico, il suo modello sociale anti-solidaristico, le aspettative franate nella realtà della recessione, la paralisi di una campagna elettorale permanente.

C'è tutto questo nella reazione popolare di oggi, emotiva, politica, sinceramente democratica, come la piazza anti-razzista di Milano, come la piazza della Cgil, come le tante manifestazioni di questi mesi, da Riace agli studenti. Ecco, siamo di fronte a un nuovo investimento in termini di fiducia, verso un centrosinistra più largo, popolare che sappia intercettare queste ansie della società. Non è un assegno in bianco, ma una fiducia da non tradire e una aspettativa da non deludere. Perché non è irreversibile. È la richiesta di un nuovo inizio. Il mite Zingaretti, l'opposto - per cultura, formazione e stile - rispetto allo spirito della rottamazione, alla cultura della destrutturazione dei corpi intermedi, al populismo renziano di questi anni, alla narrazione presentista senza memoria e senza storia, questa richiesta e questo spirito del tempo l'ha colti. Già nelle sue parole, nel primo discorso dopo la vittoria, c'è una discontinuità. Non c'è l'invettiva rispetto ai barbari, con lo spirito del primo della classe che spiega al popolo che non ha capito la lezione, ma il tentativo di ricostruire, senza arroganza, una connessione sentimentale smarrita, che è anche ricostruzione sentimentale con un bagaglio di valori, emozioni, sedimentazioni culturali profonde.

"Partigiani", "disoccupati", "femministe", "l'appello al meglio della intellettualità italiana", il porsi come l'interprete di una comunità e non come un capo. È solo l'inizio ma sembra una rivoluzione copernicana rispetto al Pd di questi anni. Il passaggio dalla cultura del conflitto – "noi" e "loro" – a quella del "patto", come chiave per costruire una alternativa: patto tra lavoro, cultura, impresa, con la politica chiamata a far camminare le idee sulle gambe degli uomini, attraverso una alleanza larga e radicata nella società. Questo voto rappresenta l'archiviazione del renzismo, del suo spirito, delle sue politiche, dei suoi uomini che, con questi numeri, non hanno – per la prima volta da tempo – la forza per limitare i margini di movimento del nuovo leader. Ed è un voto che rende complicata una scissione dell'ex segretario, perché è assai difficile immaginare che una tale prospettiva possa incontrare una parte consistente di questo popolo che ha chiesto di cambiare, ma di cambiare assieme, contro il governo e non contro il segretario che stava per eleggere.

E forse non è un caso che la prima dichiarazione di Renzi sia collaborativa e conciliante. Quantomeno l'eventualità è rimandata. Da domani la domanda chiave non sarà più il "che farà Renzi". Ma il "che farà Zingaretti" per non tradire la fiducia che un popolo largo ha riposto, ancora una volta, nel Pd ben oltre i meriti dimostrati dal partito in questi mesi e anni. Il titolo funziona: "Un nuovo Pd, una nuova alleanza, un campo nuovo e largo. Unità, e ancora unità. Cambiamento, e ancora cambiamento". Ora lo svolgimento. Concreto.

Alessandro De Angelis