A poche ore dal termine della tappa principale della visita di Stato del presidente cinese Xi Jinping a Roma, il dibattito vivace che l'ha preceduta e accompagnata è destinato a continuare più acceso di prima. La decisione italiana di firmare un controverso Memorandum of Understanding (MoU) bilaterale con la Cina, che ha visto l'Italia al centro di un'ondata di reazioni critiche provenienti soprattutto dalla Commissione europea e dagli Stati Uniti, è stata una mossa largamente percepita come divisiva, sia all'interno dell'Unione europea che nei confronti degli alleati della Nato. Sebbene il governo italiano abbia ripetutamente dichiarato che questo documento di larga intesa non sigla alcuna alleanza strategica tra Roma e Pechino, e il Presidente Mattarella lo abbia voluto inserire nero su bianco nel testo e ulteriormente ribadire nella sua dichiarazione ufficiale in presenza del Presidente Xi, è indubbio che l'MoU sia un documento politico che sancisce la volontà di cooperazione dell'Italia al progetto cinese delle cd nuove vie della Seta, il cui nome ufficiale è Belt and Road Initiative (BRI). Cosa significhi la firma dell'Italia e quali implicazioni potrebbe avere sul corso effettivo delle relazioni con la Cina, con gli altri Stati Membri fondatori dell'Unione europea, nell'ambito delle Istituzioni europee e con gli alleati a Washington resta tutto da vedere e in gran parte ancora da giocare. Non è di certo un punto di arrivo nelle relazioni con la Cina, ma semmai un punto di partenza, allo scoperto e in piena corrente. Nelle relazioni economiche e commerciali con la Cina, l'Italia ha dato la giustificata impressione di voler navigare in solitaria, illudendosi di poter recuperare da sola la distanza che la separa dagli Stati Uniti, dalla Germania e dalla Francia. È vero che ciascuno dei tre ha sempre gestito molto bene i propri interessi economici con la Cina, senza troppo curarsi di quelli altrui e senza aspettare che un'eventuale e finora improbabile posizione comune emergesse in Europa. Senza mai esporsi politicamente, Washington, Berlino e Parigi hanno sempre lavorato per avere accesso al mercato cinese, esportare molto in Cina a fronte di altrettante importazioni, investire in imprese in Cina e accogliere imprese cinesi in casa. Non hanno mai avallato posizioni comuni perché non ne percepivano la necessità.

Oggi una volontà comune ancora non si vede, ma qualcosa è cambiato. Innanzitutto, un documento che introduce lo screening degli investimenti diretti in entrata dall'estero nell'UE è stato emesso dalla Commissione, anche se solo quando, nell'autunno del 2017, la Germania lo ha ritenuto necessario, dopo che le era stata soffiata dai cinesi Kuka, il suo gioiello della robotica. A quel documento l'Italia, con il lavoro di Carlo Calenda, aveva contribuito, chiedendo da tempo un fronte comune. Inoltre, il 12 marzo scorso, sempre la Commissione ha emanato un decalogo di azioni suggerite agli Stati Membri nelle loro relazioni con la Cina, sotto il nome significativo di China strategy. Questo decalogo include tra l'altro un riferimento esplicito alla necessità di salvaguardare i settori maggiormente strategici degli SM, come quello delle telecomunicazioni, da eccessive ingerenze cinesi. Non è difficile immaginare che tale decalogo sia stato ispirato dall'imminente firma dell'Italia, e questo può essere un primo effetto positivo della mossa italiana in prospettiva della definizione di una posizione comune europea, che ha sempre stentato a emergere. Infatti, mentre i principali paesi europei preferivano curare individualmente i loro interessi in e con la Cina, quest'ultima tesseva con costanza e pazienza la sua tela nel resto dell'Europa, costruendo intese economiche e commerciali bilaterali con ormai 16 paesi in Europa centro-orientale, alcuni dei quali Stati Membri dell'UE, e allargando a macchia d'olio la sua influenza economica, ma anche al contempo politica. Influenza che ora sta abbracciando il sud dell'Europa: prima dell'Italia, la Grecia e il Portogallo hanno firmato un MoU, e Cipro potrebbe seguire. L'abile mossa di Macron di invitare Angela Merkel e il presidente Junker a Parigi per incontrare Xi nei prossimi giorni segnala la volontà di innalzare il livello dal bilaterale al comunitario, atteggiamento che potrebbe ispirare anche il governo italiano.

Se davvero il MoU firmato oggi, come dichiarato da alcuni esponenti del governo, ha lo scopo di elevare il livello delle relazioni con la Cina, allora sarà opportuno dialogare maggiormente con Bruxelles in vista del prossimo EU-China summit dei primi di aprile. Per quanto riguarda la nostra appartenenza all'alleanza nord-atlantica, non è tanto la firma in sé a sancire prese di posizione, come gli Stati Uniti hanno voluto sottolineare, ingigantendo volutamente la portata dell'MoU, per giustificati motivi strategici di interesse comune agli Stati Uniti e all'Italia. È indubbio che un'intesa con la Cina da parte di un paese che ospita molte basi NATO e dal quale dipende tuttora la sicurezza dei traffici nel Mediterraneo, crea dubbi non tanto sulla fedeltà degli alleati, quanto sulla loro ingenuità nell'esporsi a potenziali posizioni difficili. Per questo i settori delle telecomunicazioni e dei porti sono stati oggetto delle maggiori preoccupazioni da parte degli Stati Uniti. Ma al di là delle conseguenze della firma sulle relazioni con l'Europa e con gli Stati Uniti, quali effetti potrà avere l'MoU sulle relazioni Italia-Cina? Al momento di risultati concreti non se ne vedono, dal momento che non si sa molto della trentina di accordi siglati nel Business Forum Italia Cina che si è svolto parallelamente al vertice. Tra gli esempi noti, la collaborazione per la trasmissione delle partite di calcio italiano in Cina, per l'aumento del turismo cinese a Roma attraverso una semplificazione della procedura dei visti, e la collaborazione tra le agenzie ufficiali di stampa italiana e cinese non sono rappresentativi dei grandi vantaggi economici che l'Italia potrebbe trarre.

A dir il vero, servono più gli interessi cinesi di quelli italiani. Inoltre, pur concedendo alle imprese e al mondo produttivo coinvolto direttamente nella serie di accordi d'affari siglati a latere dell'MoU di non volersi occupare né interessare degli aspetti geopolitici associati all'MoU (come ha efficacemente dichiarato il presidente del porto di Trieste Zeno D'Agostino: "io non mi occupo di geopolitica, io mi occupo di business"), non si capisce quale sia la visione del ruolo italiano nella BRI. Per esempio, aumentare semplicemente i traffici nel porto di Trieste può essere un vantaggio limitato e di poco valore, se il porto diventerà semplicemente lo scalo dei traffici gestiti dai cinesi tra il Marocco, Suez, il Pireo a sud e la Slovenia e l'Ungheria a nord, dove le aziende cinesi hanno da tempo grandi investimenti produttivi nel settore automobilistico. Da sempre, nei paesi che funzionano bene, la politica è funzionale alla crescita economica e allo sviluppo, e questo fanno da sempre gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e la Cina. Con questo MoU, si è sostenuto che l'Italia voglia dare una cornice giuridica (IlSole24Ore) agli accordi operativi e concreti tra Italia e Cina. È presto per dire quali saranno davvero i risultati concreti per il paese, al di là della collaborazione culturale. Servono risultati concreti e misurabili in termini di maggiori esportazioni, a fronte di importazioni che non aumentano (e non invece semplicemente di maggiore interscambio, senza menzione degli squilibri commerciali). Se diventare hub logistico senza effetti sui settori produttivi corrisponde alla visione del ruolo dell'Italia nella BRI, allora l'MoU avrà portato certamente risultati concreti, ma soprattutto per la Cina.