Non può esistere solo la preoccupazione per i conti pubblici se ormai anche i sondaggi individuano nella rabbia crescente di milioni di persone il vero elemento di rottura della coesione sociale in Europa. Se è vero che la tenuta dell'Unione dal punto di vista
ragionieristico dipende dal livello del debito, come continuamente il commissario Moscovici ripete all'Italia, dimenticandosi peraltro che a febbraio il nostro paese ha
registrato la migliore crescita della produzione industriale dell'Eurozona, servirebbe almeno capire quali siano stati i motivi di questo cambiamento dello stato d'animo delle persone, molto più pericoloso di una legge di bilancio fatta a deficit.
In quasi venti anni, volendo fare un bilancio dell'ultima legislatura europea prima delle elezioni, sono quattro i fattori che hanno influenzato il nostro mondo antico, dal 2001 in poi. Innanzitutto la guerra al terrorismo islamico dopo l'attacco dell'11 settembre e la vittoria di Donald Trump hanno mutato l'atteggiamento degli Stati Uniti rispetto
all'Unione Europea, considerata una concorrente piuttosto che un'alleata; in secondo luogo, la globalizzazione, che oggi permette ad alcune multinazionali digitali di fatturare come un grande paese, ha creato degli Stati sopra gli Stati, in condizione di imporre nuovi modelli di business e di vita; va considerata poi come terzo elemento di rottura la nascita dell'euro, che pur interrompendo il monopolio secolare del dollaro, non ha comportato l'attesa
convergenza economica tra i vari paesi e con la crisi post Lehman Brothers in alcuni casi l'ha persino ampliata (lo spread tra i diversi costi del denaro ne è una prova lampante); infine l'allargamento ad Est dell'Unione Europea, da molti considerato un errore, è stato sicuramente il segreto del boom economico che fa crescere del doppio paesi come la Polonia, l'Ungheria, la Slovacchia, la Repubblica Ceca, ma d'altra parte ha creato un punto d'approdo, insieme a Slovenia, Romania e Bulgaria, di molte produzioni occidentali delocalizzate, che hanno lasciato per questo nei paesi d'origine veri deserti industriali.
Tutti questi fattori, ognuno a suo modo, calati nel decennio appena lasciato alle spalle di caduta economica, e non certo il mancato rispetto dei parametri di Maastricht, rappresentano la concausa dell'aumento delle diseguaglianze, dell'impoverimento delle nazioni, dello spaesamento della classe media, laddove i governi hanno dovuto fronteggiare la crisi dei debiti sovrani e famiglie e imprese l'effetto della conseguente recessione.
Risultato: negli ultimi 25 anni, come ha rilevato l'Ocse, il reddito dei ceti medi in Europa è cresciuto meno di quelli più alti. Sicché la finanza pubblica risente di queste variabili e non ne rappresenta il fattore scatenante, ne diventa effetto e non causa, così come è sbagliato pensare che un ritorno delle piccole patrie possa essere la soluzione per dare una risposta a oltre cento milioni di europei che stanno scivolando verso l'esclusione sociale.
Eppure tutto va avanti come se fossero importanti solo i numeri e le leggi finanziarie. Si parla delle prossime scelte che coinvolgeranno capi di stato e di governo da quest'estate in poi, dei prossimi presidenti del Parlamento Europeo, della Commissione, del Consiglio Ue e della Bce, come se non si conoscesse la febbre sociale che sta per far esplodere il termometro.
L'Ue in poco più di un decennio, invece di integrarsi di più si è di fatto pian piano trasformata in una confederazione litigiosa retta dal solito asse franco-tedesco, incapace però di dare risposte universali a 500 milioni di cittadini europei preoccupati per la loro sicurezza, impauriti dal terrorismo islamico e dall'immigrazione, convinti di avere un posto di lavoro ormai a rischio. Anche se a volte la realtà è ben diversa dalla percezione, come nel caso italiano in cui la popolazione crede che la quota di immigrati su quella residente sia del 24% quando invece si ferma al 6%, occorre leggere con la stessa attenzione che si presta a un Def le analisi che mettono al centro delle paure degli europei non più l'occupazione o il potere d'acquisto, bensì la loro stessa condizione personale nella comunità di cui fanno parte. Una recente ricerca Swg ha fatto emergere aspetti inquietanti quali la rabbia diffusa contro la politica e il sistema capitalistico, incapaci entrambi di creare quel lavoro aggiuntivo che servirebbe, e la paura per lo strapotere di multinazionali e grandi banche d'affari, che induce a far pensare a quasi un cittadino su due in Francia, Germania e Italia che serva una rivolta per ridare speranza a chi ha perso tutto.
Non si tratta di allucinazioni statistiche o di previsioni apocalittiche, pur nella loro imperfezione, ma di un indice di ebollizione sociale, la cui evidenza occorre smettere di
negare.
Anche a casa nostra. Quando l'Ocse ha rilevato come il benessere degli italiani sia fermo al 2000, nessuno dei commentatori ha notato la data: esattamente un anno prima dell'ingresso dell'Italia nell'euro. I dati e le stesse ammissioni di chi all'epoca governò l'avvio dell'Unione monetaria, confermano invece che qualcosa è andato storto, tra arrotondamenti nel periodo di doppia circolazione lira-euro, aumenti fraudolenti di molti generi di largo consumo e mancati controlli, uniti ad un cambio probabilmente troppo sfavorevole.
Chi aveva una rendita e investimenti da fare ha guadagnato dall'abbassamento dei tassi di interesse, chi viveva solo di reddito da lavoro dipendente e non poteva fare investimenti ci ha perso. Ciò nonostante si sostiene ancora che la classe media stia peggio solo per gli effetti della grande crisi finanziaria, senza considerare il suddetto aspetto fondamentale.
E' un atteggiamento un po' ipocrita, che ricorda quello di chi legge i sondaggi sugli arrabbiati europei e si illude che siano solo dei nuovi Miserabili confinati in basso della
scala sociale e non una realtà importante, un ago della bilancia, la faglia che può provocare un terremoto alle prossime elezioni europee, sovvertendo probabilmente tutti i sondaggi.
Come se la Brexit, undici governi sovranisti su 27, i tanti nuovi partiti di ultra destra e i gilet gialli fossero solo un'invenzione della mente. Dalla crisi alla rivolta.

Roberto Sommella