Oggi, 25 aprile, fausto o infausto, a seconda dei punti di vista, e dei ricordi, è e sarà sempre la “Festa di tutti gli italiani”. Sono passati 74 anni da quel 25 aprile del 1945 in cui finalmente l’Italia riuscì a trovare la sua Liberazione. Ma dopo tutto questo tempo, il rischio che corriamo, come Paese, come cittadini, come individui, è lo smarrimento della memoria e la fatale, drammatica, espulsione dal nostro vocabolario politico di parole importanti e decisive, anche per la definizione del tempo presente.

Molti fattori concorrono a rendere concreto questo rischio: l’inevitabile perdita dei testimoni diretti di quei giorni; il fatale declassamento del 25 aprile a “gita fuori porta”, soprattutto per certa opinione pubblica e purtroppo anche per le giovani generazioni. In molti è ormai radicata l’errata convinzione che se non esiste più il pericolo fascista, non ha più senso essere antifascisti. Eppure, antifascista è parola che ha un valore storico e politico che prescinde dai fatti storici dai quali essa è nata, dalla guerra civile scoppiata in Italia dopo l’8 settembre del 1943. E di cui mi piace ricordare le storiche “Quattro giornate di Napoli” quando i miei concittadini decisero di impugnare le armi e di combattere strada per strada, vicolo per vicolo contro gli ex alleati divenuti a tutti gli effetti occupanti (più di trecento pagheranno questa scelta con la vita).

Ma se la guerra civile dell’Italia tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945, e la parola antifascismo non s’insegna piú nelle scuole superiori, o nelle università, o in tv, o tra gli italiani all’estero, come potranno, le nuove generazioni, segnalare un pericolo fascista o autoritario? Il termine Antifascismo resta uno degli ancoraggi semantici e concreti, dagli effetti anche giuridici, della nostra democrazia, e della nostra Costituzione. Dimenticarsene è un delitto, contro la memoria, contro il presente, contro le nuove generazioni.

Oggi dicevo, si festeggia il 25 aprile. Il passato esiste solo per le cose materiali che contano poco, che scadono, che si consumano. I valori, le persone, i sentimenti importanti, quelli che ci hanno fatto essere così come siamo, (sia come individui sia come comunità), non sono collocabili nel passato perché, essendo fatti costitutivi di tutti noi, vivono con noi nel presente. Ed è con questo puntuale approccio di attualità credo sia giusto celebrare oggi il 25 Aprile, con i suoi valori di giustizia, uguaglianza e libertà. E’una questione che riguarda il nostro presente e il nostro futuro.

Data simbolica che l’Italia ha scelto per riflettere sull’esemplare esperienza della Resistenza italiana, fatta di valori e dal sacrificio di tante persone che hanno deciso di scegliere ed essere protagonisti di quel presente per dare a se stessi e alle generazioni future una prospettiva migliore, per quello che oggi chiameremo il bene comune. Anche da questo dobbiamo prendere lezione dalla Resistenza e dai suoi protagonisti. Resistere, resistere urlavano i nostri nonni in quelle vecchie e fetide trincee che hanno sbarrato l’avanzare del nemico. Resistere, resistere continuo a ripetere oggi, ai colleghi di questo giornale e a quelli delle altre testate colpiti con noi da questa crisi che ci sta distruggendo, poco a poco. Che sta dissanguando la libera editoria, le cooperative di giornalisti, l’editoria non profit, quella che non ha mai voluto padroni, padroni politici. Grazie ai diktat di Crimi, del M5s e della Lega.

Sono tempi difficili per la stampa e difficilissimi per la stampa italiana all’estero. Ma è soprattutto nei momenti di difficoltà che si deve essere protagonisti. Soprattutto nei momenti di difficoltà dobbiamo essere pronti a fare quello che è giusto e non nasconderci dietro a ciò che è solo miseramente conveniente. Non possiamo non vedere che, anche a causa della crisi economica e sociale che sta pervadendo il mondo intero, resta il rischio concreto che la mancanza di una prospettiva per milioni di cittadini possa essere un terreno fertile per il riaffermarsi di una cultura antidemocratica, xenofoba frutto di un miope istinto di autoconservazione.

Dobbiamo allora stare attenti e fare di più perché questa cultura, autoritaria, non dilaghi. Certo alle istituzioni spetta un ruolo principale da svolgere sia nella promozione che nell’affermazione di una cultura della democrazia e della partecipazione, ma è ad ognuno di noi che spetta la scelta di impegnarci e di non essere indifferenti, sempre però mantenendo vivo ed alto il sentimento di appartenenza al nostro Paese, soprattutto noi Italiani che viviamo in Paesi diversi dal nostro, affermandone con grande difficoltà e soprattutto per l’ignavia e la cocciutaggine di rappresentanti della collettività scaduti sia per il tempo sia per le idee, la cultura, l’italianità, la religione e la storia. Che ci rende fieri di essere italiani. Perché un Paese veramente democratico non permetterà mai lo svilimento dei propri valori e dei propri principi, ma sulla base di questi, permetterà invece l’integrazione di altri. Ricordate: senza il rispetto per la propria identità, non potrà mai esserci rispetto per l’altro.

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