Leonardo da Vinci, a 500 anni dalla morte (era nato a Anchiano fraz. di Vinci, Firenze, il 15 aprile 1452, morì ad Amboise, in Francia, il 2 maggio 1519), ancora ha la forza di mettere pace e fare discutere. Fornisce anche una buona occasione per mettere a fuoco un tema che mi appassiona dal mio primo viaggio all’estero, mezzo secolo fa: la percezione che il resto del mondo ha dell’Italia e degli italiani, esattamente opposta a quella che noi abbiamo di noi stessi. In un precedente articolo, ho tentato un primo approccio partendo da un’altra ricorrenza di questi giorni, il 5 maggio. Quel giorno, nel 1821, morì Napoleone Bonaparte, altro pilastro della retorica italiana avvolta in pelle di struzzo. La vita di Leonardo presenta molti spunti di riflessione per chi si interroga su noi e il resto del mondo. La sua esperienza, depurata della eccezionalità del genio, è di grande modernità. Leonardo non fu un genio del male come Napoleone, fece solo cose buone, oltre ai suoi dipinti. Basterebbero le sue opere d’arte a giustificarne la presenza fra i massimi italiani. Poi c’è tutto il resto: le idee, le invenzioni, gli esperimenti e anche l’uomo, con pregi e difetti, come tutti noi, la differenza è nelle dosi.

Il cinquecentesimo anniversario della morte di Leonardo Da Vinci è stato anche occasione di un viaggio in Francia del nostro presidente Sergio Mattarella accorso a far pace con l’omologo francese Emmanuel Macron. Sarebbe stato così ricucito lo strappo causato dalla incauta mossa dei grillini Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, corsi a Parigi a abbracciare alcuni leader dei Gilet Gialli, scegliendo peraltro la fazione sbagliata e facendosi spernacchiare in mezza Europa. Se a uno piace quel tipo di gente, libero di fornicarci. Non lo può fare il vice presidente del Consiglio italiano. Quelli non sono un partito, sono dei teppisti. Con una mossa degna dei grillini, Macron reagì in modo isterico, richiamando l’ambasciatore, come ai tempi delle cannoniere. Mattarella si umiliò e chiese scusa, nel glaciale silenzio del primo responsabile politico, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il che la dice lunga sulla struttura mentale e la pasta dell’uomo. Ci torneremo in altra occasione.

Nel clima revisionistico che caratterizza i nostri tempi e induce a mettere in discussione, magari dissacrandoli, i miti del passato, si segnala un intervento del settimanale inglese Economist. Nel solito stile saccente e sempre un po’ cerchiobottista, tratta con sussiego Leonardo: “Al pari di molti autodidatti, da Vinci era avido di sapere ma con poca autodisciplina intellettuale […e ha finito per realizzare] un’infinita serie di marchingegni non testati, studi non pubblicati e opere d’arte rimaste incompiute”. Ma non basta: “Al di fuori del campo pittorico, la sua eredità – a differenza della genialità – è esigua”. Tenetevi: “La sua opera artistica, pur sublime, è minima. A da Vinci generalmente sono attribuite meno di 20 opere terminate. Non è riuscito a completare alcune delle commissioni più importanti come ad esempio l'”Adorazione dei Magi”. L’infelice sperimentazione con vari materiali ha rovinato delle opere, tra cui “L’ultima cena”. Da qui la scarsità di mostre dedicate alla sua arte in quello che dovrebbe essere il suo anno”.

Le mostre dei quadri di Leonardo sono scarse, è vero. I musei che ne hanno non amano prestarli. La Gioconda vale metà dei biglietti del Louvre. Varie sono invece le mostre sui suoi disegni e invenzioni, che in genere deludono. Ma giudicare la grandezza di un artista dal numero dei dipinti è originale. Che poi la sua influenza abbia portato a capolavori come La Tempesta di Giorgione non basterebbe ad affiancarlo a Michelangelo e Raffaello. Si tratterebbe di una idea “relativamente moderna” e tutta francese. “Fino al XIX secolo è stato considerato un genio ma a un livello inferiore rispetto agli altri”. Intrigante questa graduatoria del genio. Non sarò io a infilarmi in una analisi critica sui sublimi artisti, anche se ammetto che preferisco Leonardo, Michelangelo e Raffaello a Picasso o Guttuso o Dalì. Per quelli dell’Economist, poi Leonardo era “probabilmente sinistrorso e quasi certamente gay, era una sorta di emarginato”. Sinistrorso perché era una brava persona che aborriva i soprusi? Gay? Certo non era uno sciupafemmine, ebbe esperienze omosessuali (ci fece anche un po’ di galera) ma il confine dei costumi non è mai come vorrebbero le leggi e la morale dei tempi.

Ebbe anche donne (la Cremonese ad esempio) ma non si sposò, come spesso accade ai figli maschi unici specie nel caso di madre nubile. In molti casi il matrimonio è foriero di tormenti. Fu un buon figlio, si prese in casa la mamma anziana, le fece un funerale decoroso. Un uomo normale, non una icona gay, come neppure penso si possa considerare tale Michelangelo. Aveva altro cui pensare. Le donne non gli piacevano se non oltre l’età sinodale e di altissimo livello intellettuale. Leonardo preferì avere in casa ragazzini avvenenti come Salaì e Melzi. Da qui a parlare di sodomia ce ne vuole. Avevano rispettivamente 10 e 15 anni quando entrarono nella sua vita. Oggi sarebbe uno scandalo, ma fino a pochi decenni fa dieci anni era per un ragazzo l’età giusta per cominciare a lavorare. Quanto a dire che fu un emarginato, ci vuole un bel po’ di coraggio. Certo non deve essere stato facile vivere in mezzo ai fiorentini, per uno dal genio conclamato fin da quando aveva 20 anni. Senza titoli, curriculum, esami, concorsi. Non se la intendeva con Michelangelo. La storia è piena di geni che non si amano. Ma lo amavano i grandi del tempo, tali Ludovico il Moro, Luigi XII e Francesco I di Francia. Con i fiorentini il discorso può essere diverso, sono gente che ancora non ha restituito la cittadinanza a Dante Alighieri dopo 7 secoli. Ma anche a Firenze era tanto apprezzato che per trattenerlo a Milano Luigi XII dovette esercitare sui governanti di Firenze tutta la pressione che gli conferiva un esercito forte e feroce.

Un merito i critici inglesi gli riconoscono: “A differenza di Raffaello e Michelangelo, non fu mai servo dei Papi”. Ma servì personaggi con cui era preferibile non trovarsi soli a buio, come Ludovico Sforza o, peggio ancor mi sento, Cesare Borgia, figlio di Papa Alessandro VI, uno dei peggiori criminali della storia (in questo Leonardo ebbe sponda nel concittadino Nicolò Machiavelli). E finì, come tanti cervelli in fuga, per servire due re di Francia. Forse non morì fra le braccia di Francesco I piangente, ma che Vasari la racconti come vera conferma il legame che c’era, a superare mezzo secolo di differenza di età. Leonardo morì ad Amboise nel 1519. Sentendo avvicinarsi la morte, preferì andare sul sicuro. Dopo una vita molto poco religiosa, si confessò, fece la comunione, ordinò un funerale con frati e ceri e la sepoltura in una cappella tutta per lui. Francesco I gli aveva donato una specie di dependance del suo grande castello, venti minuti a piedi. Si vedevano quasi tutti i giorni. C’era amore, c’era ammirazione, c’era anche l’arroganza di un re che al tempo spadroneggiava in Italia.

Leonardo fu, pur genio sublime, uno dei tanti italiani che presero la strada della Francia un po’ per forza un po’ per stare meglio. Cervelli in fuga del tempo che fu. Come Cristoforo Colombo, come Amerigo Vespucci, i fratelli Vivaldi, al servizio di spagnoli e portoghesi. Come Leonardo, più di Leonardo, altri italiani contribuirono alla grandezza della Francia: pensate al cardinal Mazzarino. I francesi se ne vergognano ma senza di lui la loro storia sarebbe stata molto diversa. Di Leonardo non si vergognano, al punto che l’altro giorno un giornalista in tv ha detto che era un genio francese. Per loro ormai la Gioconda è la Joconde, principale attrazione del Louvre. Poco gli importa che Leonardo abbia iniziato il dipinto a Firenze, che la donna del ritratto possa essere la moglie del mercante fiorentino Francesco del Giocondo o la figlia di Ludovico il Moro, Bianca Giovannna Sforza. Quello della identità della Gioconda o Monna Lisa è il più grande mistero che dura da mezzo millennio attorno alla vita di Leonardo. Certo a quel quadro era molto attaccato. Non lo consegnò al committente, chiunque fosse. Tenne il quadro con sé fino alla morte, lo lasciò in eredità al giovane Melzi, il quale probabilmente, prima di rientrare a Milano, lo vendette al re. Ma questi sono dettagli da studiosi e da patrioti italiani. Les italiens non meritano tanta attenzione.

Marco Benedetto