Le elezioni europee hanno in Italia dato un responso chiaro: un netto vincitore - la Lega di Matteo Salvini -, un non vincitore e non (troppo) perdente - il PD allargato (?) di Zingaretti- e uno sconfitto - il Movimento 5 Stelle e in particolare il capo politico Luigi Di Maio -, per il quale si può dire trattarsi di un caso da manuale di suicidio politico annunciato. Infatti, a volerli cogliere, i segnali di una disfatta erano già evidenti e non da poco tempo, così come i rischi ai quali il Movimento stava andando incontro appiattendosi sempre di più sulle posizioni salviniste e tradendo sé stesso e i suoi elettori. È di tutta evidenza che la responsabilità del crollo ricade in toto sul capo politico del Movimento, Luigi Di Maio, che dovrebbe ora prendere atto delle proprie responsabilità e dimettersi.

Responsabilità evidenti: far dimezzare, e oltre, i consensi in un anno, avendo perseguito una politica lontana dagli ideali del Movimento, facendosi vampirizzare dalla Lega; una colpa politica che non può non avere conseguenze sul ruolo di Di Maio, ricordando che nello Statuto, all’articolo 11, lettera h, punto 3, è stabilito che deve essere sottoposto a procedimento disciplinare colui che abbia provocato o rischi di provocare "una lesione all’immagine o una perdita di consensi per il MoVimento 5 Stelle". Sembra davvero scritto per Di Maio, che con la sua politica di appiattimento sulla Lega, ha causato un dimezzamento dei voti del Movimento e ne ha rinnegato gli ideali politici, non seguendo in alcun modo un metodo democratico nelle scelte che hanno condotto il Movimento alla sconfitta. Di Maio e assieme a lui gli altri presunti leader del Movimento ne hanno tradito i valori e gli elettori, oltre aver contribuito a creare una situazione di confusione politica e istituzionale gravissima. Il silenzio di Toninelli sulla "chiusura dei porti", disposta arbitrariamente dal ministro dell’Interno, è il caso più clamoroso.

È apparso chiarissimo che vi fosse una sola preoccupazione: quella di durare, di tirare a campare. Ma il Movimento non ha alcun senso se tira a campare; non è da lui tenere strette le poltrone e aver paura di una crisi per non dover rinunciare al potere. Il Movimento si proponeva ben altro che la conquista del potere come fine e la tutela della posizione privilegiata di ministri e parlamentari ora terrorizzati dalla minaccia salviniana di far cadere il governo. In questo anno si è imboccata una strada illiberale, partendo dal sostegno al decreto sicurezza, per poi arrivare alla legge sulla legittima difesa. Il Movimento a guida Di Maio, inoltre, ha rinnegato i suoi principi ambientalisti con il voto sul condono a Ischia, inserito nel decreto "Emergenze", relativo al Ponte Morandi di Genova.

Infine, vi è stato il tradimento dei principi che gli elettori avevano apprezzato sperando nel promesso cambiamento delle "abitudini" della politica e nell’abolizione dei privilegi. Tradimento che ha raggiunto il suo apice con il voto del marzo scorso con cui è stata negata l’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro Salvini, che era stata chiesta dal Tribunale dei Ministri di Catania in conseguenza del sequestro di 177 persone a bordo della nave "Diciotti". Con quel voto si è stabilito un principio pericoloso e di per sé stesso assurdo, ma che lo è ancora di più per il Movimento: quello dell’assoluta e irragionevole immunità concessa a un ministro, posto al di sopra della legge proprio per la sua carica di ministro. Quel Movimento che si era sempre battuto contro tutti gli irragionevoli privilegi della classe politica, ne concede uno del tutto ingiustificato a un ministro, temendo ripercussioni per la stabilità del governo. Per questo è chiaro che Salvini si tiene ben stretto un Movimento geneticamente modificato come quello guidato da Di Maio, un Movimento che non potrà fare altro che dire sì, ancor di più oggi che è così indebolito, dopo aver mostrato di essere prono e obbediente pur essendo la maggiore forza politica per l’ampiezza del mandato conferitogli da milioni di elettori nel 2018.

Ma questa condotta condurrà alla consunzione del Movimento stesso che diverrà, ancor di più di quanto non sia stato in questi mesi, la ruota di scorta di un Salvini che, a maggior ragione oggi, con i rapporti di forza invertiti rispetto alle elezioni politiche, già impone i suoi temi, in un costante "prendere o lasciare". Le ultime dichiarazioni di Luigi Di Maio, sulla necessità di rispettare il contratto di governo, non prendendo atto della realtà, dimostrano la volontà di rimanere comunque abbarbicato pervicacemente alla posizione di potere occupata, con il sostengo irresponsabile anche di Alessandro Di Battista, e di altri esponenti del Movimento che sostengono la tesi che "si vince e si perde tutti assieme". Questo modo di pensare non solo paralizza il Movimento e lo conduce verso la rovina totale, ma - ed è più grave - si riflette direttamente sulla stessa democrazia italiana.

Partendo dalle dimissioni di Di Maio, invece, è necessario che il Movimento recuperi i valori fondanti - evidenziati dalle cinque stelle del simbolo - che devono essere alla base di una completa rifondazione del Movimento stesso. Occorre tracciare una rotta secondo un orientamento chiaro. Non ha senso dire che il Movimento "non è di destra né di sinistra": la realtà è che per agire correttamente e in modo efficace è necessario scegliere la via da percorrere, con nettezza e con coraggio, aiutando i cittadini a comprendere anche le scelte della politica, rendendole prevedibili e comprensibili. E ciò si realizza solo avendo una visione complessiva della vita e, quindi, della politica. Per questo il contratto di governo non è strumento adatto, mancando, appunto di quella visione complessiva e coraggiosa, ancorata ai valori e non alle poltrone.

Non è possibile continuare a giustapporre argomenti come si è fatto sinora, e come, a quanto sembra, s’intende fare ancora, senza un progetto di respiro ampio, senza un’analisi della complessità della realtà, in un’ottica miope che, appare evidente, ha confuso e deluso tanti che avevano creduto nel Movimento, e che gli avevano dato fiducia nel marzo dello scorso anno. Non si può nascondere il fatto che la situazione in Italia sia pessima e che Il Movimento abbia di fatto consegnato l’Italia alla destra. La Lega può imporre ora temi e agenda, e il Movimento si è costretto all’angolo, incapace di frenare la deriva per il timore di "andare a casa", per la cieca difesa di una rendita di potere di pochi che ha devastato la stessa ragion d’essere dei 5 Stelle. Anche per questo il suo rilancio parte da un giusto ricambio del gruppo dirigente che ha condotto alla sconfitta catastrofica. Si tratterebbe di un primo passo utile per avviare una riflessione complessiva su quanto si debba fare per il Paese. Infatti, si tratta di avviare una riflessione molto più ampia, non solo interna solo al Movimento, ma che non può non riguardare anche il PD.

Il Partito democratico, dal canto suo, ha poco o nulla da esultare, poiché il suo risultato è dovuto soprattutto alla differenza dei votanti rispetto al 2018. È davvero preoccupante questa cecità davanti a un risultato che ha evidenziato senza pietà la sconfitta dei partiti progressisti, di quei partiti che sono portatori di valori di civiltà, di quelli che propugnano la libertà e la democrazia. È mancata una vera alternativa al trionfo del populismo leghista, e si è lasciata molta parte dell’elettorato italiano senza rappresentanza, quella rappresentanza che è di fatto la vera perdente di queste elezioni, mentre il vincitore è il populismo peggiore, quello che sollecita gli istinti e che persegue una fuorviante semplificazione demagogica, piuttosto che il richiamo alla ragione e ai valori della libertà, della democrazia, della solidarietà. Non resta che ricominciare da zero tra le macerie di chi non rinunzia ai contenuti della sinistra, anche tra i 5 Stelle disillusi, il cui tentativo va compreso a partire dalla deludente offerta politica della attuale sinistra, senza demonizzazioni.

Serve un nuovo soggetto politico capace di valorizzare base, iscritti, formazione e cultura politica, nonché la partecipazione costruito su regole interne democratiche che permettano il dissenso e il confronto, senza frammentazione elettorale, né capi politici intoccabili in conflitto d’interessi ed arroccati in un verticismo assoluto inaccettabile in democrazia. In particolare, per il Movimento 5 Stelle, è necessaria subito una seria riflessione, che porti anche a riaprire lo statuto e i regolamenti interni alla democrazia, tornando ai valori originari attraverso un rapporto vero con i cittadini e gli elettori - che non può essere garantito certo dalla Piattaforma Rousseau - e libero di esprimersi, senza timore degli attuali strumenti di coercizione e punizione che colpisce chiunque si disallinei. Non è una postilla di un contratto, ma è l’articolo 49 della Costituzione che prevede e impone il metodo democratico nella gestione di un partito, o di un movimento politico. E l’espressione "metodo democratico" non sta a indicare solamente maggioranza e minoranza, ma anche e soprattutto rispetto delle idee di tutti, e quindi discussione libera e libera espressione dell’eventuale dissenso; non è davvero pensabile che si parli sempre di democrazia verso l’esterno e non la si attui mai al proprio interno.

Dunque, le stesse macerie del Movimento possono essere utilizzate per ricostruire, ma se di queste macerie gli attuali dirigenti del partito credono di essere i padroni assoluti, allora non sarà possibile fare altro che rimuoverle e la responsabilità della dispersione del patrimonio di idee e d’impegno non potrà che ricadere su questi ostinati e ciechi nocchieri votati al disastro. Si tratta di scelte difficili e anche dolorose, ma è necessario procedere con decisione e coraggio per poter contrastare efficacemente la politica della destra rappresentata da Salvini. Una politica che sta attuando una secessione di fatto messa in atto dal progetto di autonomia differenziata, vero cardine del "salvinismo". Con questo progetto si intende attuare un processo autonomistico del tutto privo di regole, disomogeneo tra le varie parti del nostro Paese; un progetto che intende svuotare di fatto il senso della dizione che apre l’articolo 5 della Costituzione ("La Repubblica una e indivisibile (...)", rendendolo un non senso, minando nel contempo ogni concetto di solidarietà e disgregando l’unità dello Stato.

La scissione del Paese rischia, quindi, di divenire ancora più profonda di quanto già oggi fotografino i risultati elettorali, che indicano l’esistenza di "due Italie", una - quella del Centro-Nord, a trazione leghista, e una, il Sud, nella quale la Lega segnala la sua presenza, ma non sfonda. Si tratta di una vera emergenza nazionale che deve trovare pronte alla sfida tutte le forze progressiste, in primo luogo un Movimento Cinque Stelle rigenerato e democratizzato al suo interno. Non si tratta di un cammino facile, ma è indispensabile iniziare subito. Ancora oggi, infatti, è valido il pensiero di Antonio Gramsci: "Mi sono convinto che anche quando tutto sembra perduto bisogna mettersi tranquillamente all’opera ricominciando dall’inizio" (Lettera dal carcere di Antonio Gramsci al fratello Carlo del 12 settembre 1927).

GREGORIO DE FALCO

SENATORE