Nel giro di qualche decennio siamo passati dal votare con fedeltà i partiti storici, che avevano ognuno una chiara e ben precisa linea politica, al votare caratterizzato da forti infedeltà e basato più che altro sulla maggiore o minore simpatia nei confronti di singole figure di capi partito. Come è stato possibile? Forse esiste una spiegazione, un filo conduttore. Prima degli anni ’80 l’identità degli italiani, compresi soprattutto i giovani, passava per la tessera di partito o comunque per l’appartenenza e l’adesione politica – spesso anche per la militanza – se non a un partito almeno a un movimento o gruppo politico. Poi lo stesso sociologo Francesco Alberoni a volte nei salotti milanesi ha sostenuto che con la demolizione delle sinistre extra parlamentari, comprese quelle non armate, con la fine cioè degli “anni di piombo” e della conseguente emergenza, “a Milano si è cominciato a respirare aria nuova”: c’è stato infatti il boom del Made in Italy, quello della moda.

Stilisti come Elio Fiorucci e Roberto Rosso, fondatore del marchio e della catena di negozi Diesel, giravano anche il mondo per copiarne le novità in fatto di abbigliamento e produrle in proprio per immetterle sul mercato di massa. Poi però è esplosa l’ideazione non copiata, è esploso cioè quella che oggi si potrebbe definire una forma di “sovranismo”, sia pure limitato al mondo della moda, con l’entrata in scena e la trionfale affermazione di un numero crescente di stilisti, da Missoni a Valentino, da Versace a Dolce e Gabbana e molti altri ancora . Ma è soprattutto dopo il crollo dei partiti, travolti dall’inchiesta giudiziaria nata a Milano per iniziativa del magistrato Antonio Di Pietro e nota col nome di Mani Pulite, che l’identità degli italiani e l’espressione della propria personalità si è spostata dalla tessera di partito alla “firma” del proprio vestiario. Firma sempre più spesso stampata all’esterno dei capi d’abbigliamento anziché restare più discretamente al suo interno, magari nel taschino della giacca. E sempre più spesso esibita più o meno consciamente a mo’ di tessera d’appartenenza e voto di preferenza.

Poi il tutto si è spostato ulteriormente verso l’adesione alle diverse mode man mano lanciate sul mercato sempre più massiccio dei bisognosi di essere a tutti i costi “moderni” e “a la page”, i bisognosi di non essere o parere superati, isolati da ogni “branco” o spezzone sociale, i bisognosi cioè di simboli di appartenenza. L’avvisaglia c’era già negli anni ’80 con l’affermarsi dello spirito di gruppo, il cosiddetto branco, tra i giovani divisi in “paninari”, “skinhead”, amanti dei giacconi Moncler o degli scarponi di taglio militare. Dopo il 2000 sono arrivate – dilagando – mode magari un po’ demenziali e a volte durate poco, ma in Italia di grande successo: – il cosiddetto piercing, con anelli e chiodi col passare degli anni infilati ovunque, al naso, all’ombelico, nelle guance, nelle labbra, comprese quelle della vagina. Il fotografo Toscani, il preferito dai Benetton, all’inizio ebbe a dire che il piercing rappresenta le stimmate dei giovani d’oggi; – le mutande esibite fuori da gonne e pantaloni con mezzo sedere in bella vista sul retro e una porzione di monte di Venere o zona pubica sul davanti, con l’aggiunta di top e T-shirt sempre mooolto corte, in modo da lasciare scoperto almeno il ventre, in aggiunta a quanto già lasciato scoperto da gonne e pantaloni a vita sempre più bassa.

Il tutto non solo in piazza S. Babila e dintorni, ma anche nei paesini, nelle scuole di ogni ordine e grado, spesso anche negli oratori e perfino nelle chiese. Eccessi accaduti solo o prevalentemente in Italia; – ora è il turno dei tatuaggi. Per i quali Toscani già nel 2013 ha fondato il sito I fiori del male. Esibiti ovunque e comunque, nelle parti del corpo dove meno te l’aspetti e che magari ti distraggono da ben altre attenzioni e intenzioni. Le spiagge una volta il regno per “mostrar le chiappe chiare”, come diceva la famosa canzone “Tutti al mare”, oggi sono una infinita esibizione di tatuaggi di tutti i tipi e in tutte le parti del corpo. A volte si ha l’impressione di essere in un affollatissimo museo brulicante di disegni e dipinti ambulanti. Tutto ciò è il contorno – sostanziale e per nulla accessorio – che ha accompagnato la trasformazione della politica da competizione tra partiti e annesse linee politiche a competizione tra personaggi e annessi interessi in realtà mai di massa ma spacciati per tali, a partire dalla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi a finire, per ora, al Beppe Grillo di “Noi siamo i pazzi di Dio” e della “decrescita felice” a Matteo Salvini che agita vangeli, rosari e il Cuore Immacolato di Maria.

Arrivando così al suo terzo o quarto personaggio o travestimento che dir si voglia: prima leoncavallino e consigliere o assessore comunale leghista filo Leoncavallo, poi comunista e leader dei “giovani comunisti padani”, poi “prima i lombardi” e ora “prima gli italiani” e “prima l’Italia” affidata da Salvini con l’Europa al Cuore Immacolato di Maria. Dove e come possa essere “Prima l’Italia” non è affatto chiaro, condotta com’è da un governo quanto mai inconcludente, che semmai l’Italia la sta facendo scivolare verso il basso: in economia e nella considerazione internazionale. Ma per ora tralasciamo. Questo spostarsi della vita politica dal terreno dei partiti e della politica al terreno delle mode può spiegare anche il repentino exploit prima e il successivo dimezzamento del Movimento 5 Stelle e l’altrettanto repentino raddoppio della Lega di Salvini. Ondeggiamenti tipici del campo delle mode intese sia come modo di vestire che come look, come modo globale di presentarsi in pubblico e in società. Mode che in Italia sono vissute in modo più massiccio e intenso che altrove, tanto da rendere incomprensibili quali siano le “tradizioni” che gli attuali capi popolo e aspiranti tali dichiarano a petto in fuori di voler difendere a tutti i costi contro il pericolo “esterno” di turno.

Le mode si sa, passano. Passeranno anche quelle attuali, quali che esse siano. L’espressione “società liquida”, cioè priva di punti di riferimento solidi nella quale viviamo, l’ha già coniata anni fa il sociologo Zygmunt Bauman. Che però nel suo modello di società liquida, come dice la Treccani, “non intende certo prendere alla lettera questa metafora, come sta avvenendo invece ora, nel momento in cui libri, registri e quaderni, con tutti i significati ch’essi rivestono, rischiano di finire nelle tubature di scarico”. Ecco perché c’è il rischio che la versione nostrana delle società liquida, caratterizzata da spostamenti non solo politico elettorali di massa repentini – e dal voler “cambiare tutto” per in realtà non cambiare niente, comunque non in meglio – finisca con l’erodere fino a farle collassare le colonne portanti della coesione sociale e della vita democratica come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.

Pino Nicotri