Esiste il mobbing in politica? È un fenomeno abbastanza analizzato? È fondamentale comprendere che il mobbing è un sintomo, ossia la manifestazione di un male, endemico, del gruppo, esso nasce sempre da un conflitto tra alcuni individui all’interno delle organizzazioni per eccesso di competivita o per un tentativo del management di esclusione ed epurazione di uno o più individui visti come "divergenti" o semplicemente "fastidiosi" all’affermazione del pensiero unico, individui di cui liberarsi comunque, da espellere o se non è possibile, da isolare neutralizzandoli. Importante sarebbe cercare le possibili cause e anche soprattutto le ripercussioni che questo atteggiamento può avere sul gruppo, oltre che sull’individuo, ma soprattutto sulla qualità della produzione o della politica, se è mobbing politico, e quì, sull’esercizio della democrazia che, ricordiamolo, è inclusione delle differenze e non dittatura della maggioranza (o di una presunta maggioranza più spesso imposizione della visione e volontà di alcuni individui, uno staff, su tutti).

È di primaria importanza considerare gli aspetti organizzativi del gruppo per comprendere come questa organizzazione sia in grado, talvolta ponendoselo come fine, di organizzare operazioni di mobbing. Una distinzione importante da fare, ma non sempre attuabile, consiste nell’individuare dove finisce una gestione politica rigida e dove inizia il mobbing. C’è una discrepanza tra come le organizzazioni descrivono la loro gestione e cosa effettivamente fanno. In alcune gruppi con elevata competizione interna e forte pressione per raggiungere i risultati, dove predominano modalità relazionali basate sull’aggressività, il mobbing viene dal basso, come dicevamo. In altri casi il mobbing viene dall’alto, ma il clima ostile genera per automatismo anche un eccesso di competivita nel gruppo, a catena. Con il bossing i comportamenti assimilabili al mobbing vengono automaticamente accettati e talvolta subiti dai membri del gruppo, che li percepiscono come inevitabili. Avviene così che vengano tollerati comportamenti normalmente inaccettabili solo per il fatto che vengono messi in atto da persone che occupano una posizione gerarchica importante al suo interno, percepiti come ordini, anche inespressi, provenienti dall’alto.

Le cause per cui il mobbing può nascere e svilupparsi, anche in un gruppo precedentemente alieno da qualsiasi fenomeno aggressivo costituiscono una materia affascinante e di importanza cruciale per la comprensione e prevenzione di questo processo. Quando il mobbing è una strategia d’azione del gruppo si parla dunque, in genere, di "bossing". Il bossing è una forma di pressione psicologica che viene programmata dai vertici ai danni di alcuni divenuti in qualche modo soggetti da eliminare, da isolare o da neutralizzare. Il mobbing dunque si trasforma in una vero e proprio obiettivo politico, assumendo caratteri di normalità e di ineluttabilità. Il dottor Harald Ege nel suo ultimo libro dà la seguente definizione: "Il bossing è un tipo di mobbing politico in cui la linea politica del mobber coincide con quella aziendale e in cui il mobber può essere considerato l’organizzazione stessa, il datore di lavoro o comunque i vertici aziendali in genere". Ci sono gruppi che perseguono deliberatamente una politica di bossing per condizionare i membri del gruppo e indurli così ad accettare scelte e decidioni. "Il mobbing si dice politico quando è usato dal mobber per perseguire uno scopo preciso. In questo senso il mobbing è una continuazione della sua linea politica con altri mezzi". (Ege 2001).

Il bossing può attuarsi in modi diversi, ma tutti tendono alla creazione, attorno alla persona da "eliminare" di un clima insopportabile: atteggiamenti severi, esclusioni, rimproveri, a volte anche sabotaggi venuti dall’alto, difficilmente dimostrabili. Quasi sempre si gioca a ogni livello possibile: si tratta di una vera e propria ricerca finalizzata a distruggere la capacità di azione. Siamo di fronte a programmi normalmente difficili da capire, in cui più o meno tutto è permesso: il mobber, è il gruppo stesso, ma l’"ordine" viene sempre in modo esplicito o anche implicito dal boss e vale anche come monito agli altri. La strategia si attua nel porre il soggetto in situazioni in cui egli si trovi non soltanto degradato e dequalificato, ma anche privato di qualsiasi opportunità di compiere qualcosa di costruttivo. La pressione che il boss ha la possibilità di esercitare dipende dall’accentramento e dal potere che egli ha concentrato su di sé (funzionale al controllo). Tuttavia, chi pratica il bossing evidentemente non conosce, o non si rende conto, delle conseguenze deleterie che alla lunga potrebbero rivelarsi gravi per la tenuta stessa del gruppo.

Questo fenomeno politico in Italia è noto da tempo ma viene indicato erroneamente con il più semplicistico termine di leaderismo, che negli anni è stato identificato spesso con i così detti partiti padronali, ossia di proprietà indiscussa di un capo, ma da Berlusconi a Renzi e a venire con Di Maio, si è visto che il leaderismo è deleterio per il gruppo stesso, per la sua tenuta, per il consenso nel tempo e per la sua stessa sopravvivenza sulla scena. Esso sempre più si è caratterizzato dall’essere una politica dell’apparire e dal cavalcare la scena, sempre più si è basato sull’immagine e la comunicazione mediatica, ma negli anni si è assistito anche a un andamento delle sorti del partito sempre più caratterizzate da curve ascendenti improvvise e altissime giocare appunto su di un’azione propagandistica potente, con cadute sempre più veloci e repentine. Eppure dall’analisi sembra non si sia disposti ancora a trarne nessun insegnamento e il leaderismo con il bossismo conseguente, invece di riflettere su se stesso, prosegue, rafforzando le sue armi e il suo raggio di influenza, incurante delle conseguenze per sé e per la qualità politica e democratica del Paese.

PAOLA NUGNES