Sembriamo i ciechi della famosa parabola di William Carlos Williams, "ciascuno segue gli altri, bastone in mano, trionfante verso il disastro". Purtroppo, a sentir loro, siamo noi a chiedeglielo. E, in qualche modo, hanno anche ragione. Se - a dispetto del fatto che la pressione fiscale continui a crescere, le aziende a rischio a moltiplicarsi, i tavoli di crisi aperti al Mise ad aumentare (158), il reddito di cittadinanza è un flop, la flat tax, non riesca a trasformarsi in realtà, l'ipocrisia falso meridionalista del comandante Salvini - i gialloverdi escono ancora dalle urne, (com'è successo alle ultime Europee) con il 51,4% dei voti, vuol dire che gli italiani credono in questo governo e continuano a dargli fiducia. Ma è davvero così?

In teoria, sì. Se, però, si approfondisse un attimino l'analisi, assolutamente no! Detta percentuale, infatti, è calcolata sulla base di quanti hanno votato e, non tiene conto degli astenuti ovvero di quel 44% di aventi diritto che ha preferito non votare. Orbene, se è vero – com'è vero – che l'astensione non è un voto pro, ma contro, quel 51,4, se ricalcolato tenendo conto anche degli astenuti, si ridurrebbe ad un decisamente meno trionfale 27,8% (poco più di un quarto). Che si riduce, ulteriormente, ad appena il 22,7% se, anziché solo i votanti, nel computo - come, del resto, si fa per il pil procapite per il cui conteggio, si tiene conto anche dei senza reddito - venissero considerati, tutti i suoi residenti, anche quelli, che – per questioni di età o altre ragioni – non hanno diritto al voto. Il che, naturalmente, vale per Lega e M5s, ma anche per tutte le altre "stelle" del firmamento partitocratico nostrano.

Anche esse, infatti, uscirebbero ridimensionate - e non poco, anzi, quasi del 50% dei consensi ottenuti - da un eventale cambio della metodologia di calcolo. Di più, alla luce delle lacerazioni interne esistenti fra e nei due partiti al governo, parlare di maggioranza in casa pentaleghista è come parlare di corda in casa dell'impiccato. Per rendersene conto è sufficiente pensare ai litigi sempre più violenti fra Di Battista e Di Maio, con i parlamentari grillini - impauriti dal rischio di doversene tornare a casa, dopo aver ballato meno di un'estate - contro entrambi e i due fondatori, Grillo e Casaleggio che ancora non sanno da che parte stare. E non è che la situazione si presenti granchè diversa nella Lega. Anche qui - seppure mitigate dai successi elettorali da un anno a questa parte - le polemiche non mancano. Giorgetti contro Borghi, per l'idea dei minibot e Salvini lo sconfessa perchè "sono nel contratto", mentre i cosiddetti "responsabili" (Zaia, Fedriga, i due Fontana, Attilio governatore della Lombardia, e Lorenzo, ministro della famiglia. ecc.) vicini allo stesso Giorgetti, e Garavaglia, sono più convinti a farla finita con i grillini che con l'Europa.

Senza dire, poi, gli allontanamenti (per "cacciata", dimissioni o dissenso) dal gruppo parlamentare del Senato dell'ex colonnello Gregorio De Falco, Paola Nugnes, Elena Fattori, Roberta Lombardi hanno, ormai, ridotto a pochi voti la maggioranza pentaleghista a Palazzo Madama. Sicchè, non se ne può non ricavare che Governo e Paese sono ostaggio di due minoranze litigiose, irrispettose l'una dell'altra, autoreferenziali, che parlano solo a se stesse e ai propri elettori. E fra loro. Solo, però, per tentare - spesso senza riuscirci - di accordarsi sull'approvazione delle rispettive proposte e mettere insieme la maggioranza numerica in aula (che resta comunque, minoranza rispetto al Paese) per licenziarle. Da qui, l'interminabile campagna elettorale, l'immobilismo assoluto in cui è costretto il Paese e un governo che legifera (si fa per dire, visto i tanti decreti bloccati perché approvati "salvo intese" e quelli ancora in attesa dei necessari (167) decreti attuativi, ecc.) in nome di tutti gli italiani, ma con la fiducia di appena il 22% di loro.

MIMMO DELLA CORTE