Ora che manca meno di un mese al primo anniversario del 43 morti e del crollo che continua a spezzare la città, Genova sembra tornare a soffrire come quel giorno maledetto del 14 agosto 2018, mettendo insieme le due grandi tragedie del suo Dopoguerra, che hanno segnato così diversamente ma così indelebilmente le due estati: il ponte crollato e il G8 del luglio 2001 con le violenze scatenate in città e la morte di Carlo Giuliani, il ragazzo di 23 anni colpito alla testa da una pallottola sparata dal carabiniere ausiliario Mario Placanica, durante gli scontri violentissimi tra dimostranti e forze dell’Ordine. Il ponte non c’è più e lo cerchi invano con lo sguardo in Valpolcevera, come se volessi posare gli occhi sulla ferita lunga di quel viadotto da un chilometro e 182 metri, spezzato a metà e poi smontato e polverizzato fino a quel simulacro che stanno riducendo ora ai minimi termini, alla pila 8, unico segno rimasto in piedi. Ma ci sono le macerie che sembrano una montagna, le decine di migliaia di tonnellate di detriti, accumulate tra le case, la collina in mezzo alle gru che continuano a demolire le case sottostanti. ora non stanno né sotto, né sopra: si stanno riducendo anche loro a detriti, cumuli bianchi e grigi, tra nuvole di una polvere contro la quale sparano acqua nebulizzata, decine di cannoni in mezzo alla valle infuocata dal solleone di luglio. Urlano la loro protesta i commercianti dei quartieri del fu sotto ponte, perché ora è come il giorno dopo il crollo, il 14 agosto, undici mesi e dieci giorni fa, quando tutto si era spezzato. Negozi che chiudono, clienti inesistenti, traffico cancellato in attesa di un futuro che sembra allontanarsi di nuovo. Tutto si è ribloccato o quasi dopo i lunghi tempi del lutto, del dolore, dell’attesa, della paralisi del traffico e la lenta rianimazione di questo territorio segnato da quello strappo, come se avessero stracciato la carne viva della sua terra, delle sue strade, di quel fiume secco che marca la valle. Bisogna sgombrare quella montagna un po’ sinistra che incombe su via Fillak, dalla quale spunta come un moncherino del ponte, portarla via, camion dopo camion, ma non è facile, perchè quelle pietre, terra, cemento, acciaio, ferro impastato, potrebbe contenere il veleno dell’amianto e allora dove lo portiamo, dove lo nascondiamo lontano da qua? Genova avrebbe bisogno di quell’impasto per mille usi: riempire il mare dove si vuole allargare il porto per farlo diventare lo scalo della capitale del Mediterraneo, come predica il sindaco-commissario Marco Bucci o ribaltare sempre in mare il grande arsenale della Fincantieri, dove si costruiscono le navi e, se crei più spazio, allora puoi costruire ancora navi più grandi. Ma quell’impasto è sospetto e i ministri del governo giallo verde litigano da un mese sulla destinazione dei detriti. Salvini vorrebbe che si ripartisse subito con lo sgombero-ricostruzione e accusa di burocratismo il Ministero dell'Ambiente in mano ai grillini, che stanno fermando il trasloco. Il ministro Costa, ex generale dei Carabinieri, replica che prima di tutto viene la salute dei cittadini e, quindi, vuol sapere se nell’impasto ci sono quote intollerabili di amianto. Il tempo passa e tra poco sarà un mese da quando il ponte è stata demolito e quella montagna giace in mezzo alle case e anche se il cantiere della ricostruzione, che nasce da queste macerie, non smette di mostrare i suoi passi avanti con le fondamenta delle nuove pile emergenti dagli scavi, l’effetto visivo del dopo demolizione è quello di un territorio intasato, di un grande caos nel quale il nuovo orizzonte che tutti agognano non si può intravvedere. Qualcuno sale su a Coronata, sulla collina che domina la grande scena della valle prima scavalcata dal Morandi, poi spezzata dal crollo, poi sbriciolata dalle esplosioni, ora vuota, e sente il respiro del futuro, del nuovo ponte che tra pochi mesi si dovrebbe vedere spiccare il volo da una parte all’altra, da un versante all’altro. Più basso del Morandi, ma più largo, con le sue sei corsie e i piloni senza gli stralli che facevano tanto Brooklin. Ma ci vuole molto ottimismo e molta "vision", quella che piace al sindaco Bucci per "disegnare" il futuro della Valpolcevera. Se ti sposti verso il mare e il porto in certe ore della giornata ti vengono i brividi a contare i chilometri di coda che occupano la strada alternativa al ponte crollato, costruita per collegare l’autostrada alla città, al posto del viadotto scomparso. Tutti fermi in coda per chilometri e chilometri dall’autostrada verso la città. Verso il bypass miracolosamente creato dagli uomini di Bucci dopo la tragedia, un serpente di auto, Tir, pulmann che vanno avanti a passo d’uomo per entrare a Genova, per scorrere nel retroporto di Sampierdarena, per imboccare i varchi portuali, per arrivare sulle banchine, ove aspettano i traghetti delle vacanze. Quante migliaia di auto mezzi in fila per ore, in modo che chi atterra all’aeroporto di Genova e deve obbligatoriamente percorrere quella strada, impiega una, due ore, quando il percorso non richiederebbe più di un quarto d’ora! Ti vengono i brividi perché un anno fa quella coda era sopra il Morandi e se il ponte maledetto si fosse spezzato in quelle condizioni, e non la mattina del 14 agosto, sotto un nubifragio che aveva fermato il traffico, i morti sarebbero stati centinaia, se non migliaia e se tutto fosse precipitato sulle case sottostanti, abitate da 700 inquilini, gli sfollati del 14 agosto, l’ecatombe avrebbe assunto una proporzione biblica, da terremoto sconvolgente. E allora si capisce quasi a occhio nudo che c’è stato un miracolo, un vero miracolo della Madonna della Guardia, che vigila sulla valle da là sopra, se il numero dei morti si è fermato a quei 43 svenurati, per i quali tra pochi giorni si tornerà a piangere rievocando la sciagura comunque più grande del Dopoguerra genovese. Più morti dei 37 periti nella più tragica delle alluvioni, quella del 1970, più morti delle 15 vittime del terrorismo, durante gli anni di piombo, più morti dei 9 caduti nello schianto della Torre Piloti, distrutta in porto dalla manovra sbagliata della JollY Nero, una nave della flotta Messina. Ma sempre meno di quanti sarebbero stati se il ponte si fosse spezzato in un altro orario, in un’altra giornata della stesa estate, dello stesso mese, dello stesso 2018, l’anno horribilis della storia genovese. Sono brividi, ma più di rabbia che di dolore, quelli che provi quando, undici mesi e venti giorni dopo, guardi le cifre che testimoniano come il grande crollo abbia veramente colpito al cuore tutta l’economia genovese: i traffici del porto fortemente calati, ben oltre il 12 per cento, il turismo che ha invertito un trend positivo lanciato da oltre 10 anni e soffre sempre di più con la caduta verticale degli arrivi, sopratutto quelli degli stranieri che percepiscono Genova come una città più isolata, più lontana, se non irraggiungibile, almeno difficilmente raggiungibile, quasi il 15,45 per cento in meno di presenze "foreste" in maggio, quasi 7 per cento nel resto dell’anno. Di questo poco si parla in città e la parola d’ordine del sindaco-commissario Bucci e del presidente della Regione Giovanni Toti e dei loro staff è rivendicare ottimismo, esaltare gli aspetti positivi della congiuntura genovese e ligure, le inaugurazioni dei nuovi uffici agli Erzelli, la nuova cittadella dell’informatica, i successi di IIT, l’Istituto Italiano della Tecnologia, dove si costruiscono i robot del futuro e dove lavorano oramai quasi 2 mila inventori, arrivati da tutti i paesi del mondo, gli "Archimedi Pitagorici" del terzo Millennio, i parchi di Nervi riaperti dopo 30 anni per fare spettacoli dall’altra parte della città rispetto al fu Morandi, le aiuole verdi inaugurate nel quartiere della Foce sopra la copertura in rifacilmento del torrente Bisagno, un revival anni Sessanta… perfino la nuova terrazza dell’aeroporto appena inaugurata, un segno nella lenta risalita del traffico aereo. Genova soffre e cerca di farsi coraggio anche nell’anniversario di quel luglio 2001, marchiato dalla tragedia violenta del G8, che ne segnò l’immagine dolente, come nel giorno del ponte crollato, seppure in ben altro modo e con circostanze tanto diverse. Si sono ritrovati in trecento nella piazza Alimonda così lontana dalla Valpolcevera per celebrare il diciottesimo anniversario di quel G8 che mise Genova sotto i riflettori del mondo per l’incontro tra i Grandi della terra, segnato da tre giorni di violenze, scontri, distruzioni, devastazioni, pestaggi delle forze dell’ Ordine, vandalismi dei black blok, all’apice del processo di globalizzazione. Diciotto anni sono un’eternità, ma tornare a quel luglio del neo governo Berlusconi II, con il ministro Claudio Scajola insediato al Viminale proprio alla vigilia del G8 significa trasmettere un’altra immagine forte di una Genova dolente, anzi violentata come non era facile immaginare in quell’epoca, in un Paese che non aveva preso bene le misure dalla globalizzazione, un sommovimento che spingeva avanti tante forze diverse tra di loro e disarmava i governi del mondo impreparati al fenomeno. Genova era stata preceduta da Seattle, da Goteborg, dove c’erano stati disordini e anche un morto nello scontro tra le forze dell’Ordine e i ribelli, che avremmo chiamato in Italia "tute bianche" e anche "nere" e poi "disobbedienti". In Italia l’anteprima c’era stata a Napoli, pochi mesi prima con una manifesstazione conclusa da violenze. Forse per tutto questo il G8 sotto la Lanterna era diventato progressivamente un incubo e ci si era pentiti molto di averlo organizzato in una città così difficile, un dedalo di strade tra il porto e le colline. E per questo avevano ingabbiato la città con zone rosse e arancioni, chiudendo il centro antico in una gabbia di inferriate, isolando il Palazzo Ducale dei vertici tra i Grandi in una bolla e disseminando le strade del centro di container che spezzassero la strada dei cortei. Quello della vigilia, il 19 luglio, detto dei Migranti, si era svolto senza turbamenti, ma poi il 20 si era scatenato l’inferno delle violenze di strada e la guerriglia aveva devastato molti quartieri della città dove il "blocco nero" dei manifestanti aveva acceso una violenza sconosciuta, quasi chirurgica e dove le forze dell’Ordine avevano opposto un atteggiamento "nuovo" di durezza presto definita "macelleria messicana", paragonata alla tecnica di ordine pubblico del paese americano, improntata a sistemi durissimi di repressione in piazza e anche nei luoghi dove i manifestanti più duri venivano detenuti. Così la cartolina partita da quella Genova 2001 del G8, così diversa da quella di oggi del ponte caduto, era stata quella di una città in balia di una violenza mai vista. Fino alla morte di Carlo Giuliani, 23 anni, ragazzo genovese ucciso durante un assalto dei manifestanti a una camionetta dei carabinieri, il famoso Defender, dal quale il carabiniere ausiliario Placanica aveva sparato contro di lui, che avanzava brandendo un estintore, insieme a un altro manifestante che era armato di una trave. L’immagine del ragazzo Giuliani steso sull’asfalto di quella piazza genovese, la maglietta bianca intrisa di sangue, come crocifisso a quella violenza folle, è tutt’ora il "segno" di quel luglio genovese in una città spopolata per la paura, blindata, separata, percorsa da cortei, incendiata con un sindaco Beppe Pericu, che in maniche di camicie, megafono in mano, cerca di dissuadere le tute bianche e i loro leader Agnoletto e Luca Casarini dall’assaltare la zona rossa, dove i ceccchini armati proteggevano dai tetti il vertice dei Grandi. Nulla di storico è rimasto nelle carte ufficiali di quel G8, che doveva affrontare con i suoi documenti la globalizzazione, una onda che avrebbe cambiato il panorama mondiale. Sono rimaste le violenze, i grandi processi, in primis quello della morte di Giuliani, archiviato rapidamente con una procedura che oggi sarebbe piaciuta al Salvini ministro dell’Interno. Allora Scajola, che ricopriva quella carica, non era stato presente fisicamente a Genova, come lo stesso capo della polizia, Gianni De Gennaro: avevano lasciato il comando della piazza infuocata a dirigenti e reparti mobili come quello famoso delle squadre speciali della polizia di Roma, Reparto Mobile, che per vendicarsi delle sconfitte di piazza avevano assaltato la scuola Diaz, presunto covo di black bloc, pestando gli studenti e i giornalisti che occupavano la scuola, a G8 praticamente concluso. A Genova erano sì passati ministri importanti, come Gianfranco Fini, Alleanza Nazionale, allora titolare degli Esteri e vice premier, accusato poi di essere stato uno dei suggeritori del pugno duro, e Roberto Castelli, Lega Nord, ministro di Grazia e Giustizia, che nella notte della morte di Giuliani era andato a complimentarsi con il reparto mobile della caserma Ps di Bolzaneto, dove erano detenuti i manifestati arrestati in piazza, che i processi successivi hanno descritto come vittime perfino di torture vere e proprie, inflitte da secondini e medici militari. Il governo Berlusconi e quello che gli succedette di Romano Prodi, quasi cinque anni dopo, non permisero mai che si insediasse una Commissione parlamentare di inchiesta per chiarire cosa era veramente successo a Genova nel luglio del 2001, se c’erano responsabilità di governo nella gestione dell’emergenza. Restarono i processi, lunghi complicati, a fornire con sentenze a lungo attese pezzi della verità e decisioni di risarcimenti, con un lavoro della magistratura imponente e anche coraggioso, con contrapposizioni forti tra l’ordine giudiziario e la polizia, della quale molti uomini con alti gradi nelle gerarchie del Viminale finirono sul banco degli imputati e in parte condannati. Non si era tenuto forse il processo più grande, che quei fatti avrebbero giustificato: le violenze di strada commesse contro i manifestanti non violenti, spesso caricati e feriti, più di 1500 denunce refertate con diagnosi degli ospedali genovesi che, invece di finire in un fascicolo giudiziario, sono rimaste a ingiallire invano. Troppo complicato, troppo lontanto. Alla fine la verità e la giustizia su quell’altra estate dolorosa di Genova, oltre a quest’ultima del ponte crollato, non sono mai state del tutto soddisfatte. Chissà se un giorno almeno conosceremo la verità sul ponte, le responsabilità di chi lo ha fatto cadere.