Maria è solo un paravento, Giovanni Paolo II il santo che usurpa per l’ultima ambiguità politica. Per il resto Matteo Salvini si serve di Cicerone ("la libertà non consiste nell’avere un padrone giusto, ma nessun padrone"), Virgilio ("Omina vincit amor") e Manzoni ("uno il coraggio se non ce l’ha difficilmente se lo può dare") per contrastare il Martin Buber ("la politica è davvero quella nobile arte che ci consente di perseguire percorsi di razionalità nel riconoscimento delle diversità"), lo Jurgen Habermas e Federico secondo di Svevia (secondo cui "quantunque la nostra maestà sia svincolata da ogni legge, non si leva tuttavia essa al di sopra del giudizio della ragione, che è la madre del diritto’") citati invece da Conte per meglio argomentare.

Con il ministro degli Interni tra gli spalti del Senato, con gli amici della Lega a fare da claque senza comando. E invece Conte, quasi solo, con Di Maio a sinistra impresso nella fissità e Salvini a fare le faccette, a dissentire, a muovere il dito. Solo, cercando di riconquistare alle istituzioni un governo spiaggiato da colui seduto alla sua destra tra un aperitivo e due cubiste. Avvocato del popolo rimasto senza causa. In Senato per l’uomo dei pieni poteri cambia poco. Populisticamente ha continuato a pigiare sulla libertà, sul dare il potere al popolo (forte dei sondaggi a lui favorevoli), dimentico di aver preso il potere in forza di un ribaltone rispetto alle sue promesse elettorali, unito al centrodestra, sempre per restare al potere del popolo. Uomo libero, non ho paura, giudizio degli italiani, e via ripetendo in una sua interpretazione della democrazia, anche parlamentare.

Conte ha usato aggettivi e sostantivi precisi, tutti rivolti all’alleato politico, trasformato nel peggior nemico: grave, irresponsabile, preoccupante, scarsamente sensibile alle istituzioni. E si è dichiarato offeso e ha invocato la cultura delle regole. E ha ripetutamente avvertito dei rischi che corre l’Italia, in virtù della scelta del ministro Salvini, irresponsabile, "che compromette l’interesse nazionale". In nome della trasparenza, invocata più volte oggi, e così si capisce che nel segreto dell’animo e in solitudine ha ripetutamente ingoiato rospi. Sottolineando, infine, con scandalo l’uso politico del rosario da parte di Salvini (che però ribatte, non in aula, ricordandosi il premier con l’immagine di Padre Pio da Vespa). Per Salvini il Senato è stato una variabile indipendente, si è esibito in una diretta Facebook in altro luogo.

Come se fossero materia tutta del popolo italiano gli attacchi polemici a lui di Travaglio e Saviano, da lì ha iniziato il suo discorso, sottolineando, cosa molto grave, come nell’aula del Senato ci fossero persone un po’ meno libere, di lui e dei leghisti. Poi giù gli slogan di sempre e giù a rivendicare, a partire dall’uso del rosario (che aveva in tasca e che ha baciato), apoteosizzando sul paese cattolico, su padre e madre e tutti i cavalli di battaglia delle sue dirette social, fermandosi appena appena alla fine, per l’ultima curvatura politica con Giovanni Paolo II per cui "la fiducia bisogna meritarla...". Rifarebbe tutto.

Fabio Luppino