L’incontro tra il presidente della Repubblica federale di Germania, Frank-Walter Steinmeier, e il capo dello Stato italiano, Sergio Mattarella, a Fivizzano ha rinnovato l’attenzione e l’interesse verso un dramma quasi dimenticato della seconda guerra mondiale, le stragi nazi-fasciste.

Nella piccola frazione di Vinca, esattamente 75 anni fa, avvenne una di queste terribili stragi che avevano l’obiettivo di "liberare" tutta la zona della Linea gotica che correva dalla Versilia a Rimini, una sorta di confine tra la Repubblica Sociale di Salò e il resto della penisola oramai liberata dagli alleati. Tra questi monti, tra il 24 e il 27 agosto del ‘44 i militari tedeschi dell'Aufklärungs-Abteilung 16 ("Reparto esplorante 16") comandato dal maggiore Walter Reder, uccisero 173 civili.

L’unità faceva parte della stessa divisione tedesca che commise gli eccidi di Marzabotto (Bologna) e Bergiola Foscalina (Massa Carrara). A San Terenzo Monti e Bardine, sempre nel comune di Fivizzano, vennero trucidate 159 persone. A Vinca dopo aver ucciso una prima volta tutte le persone che trovarono in paese il 24 agosto, i nazisti tornarono nei giorni successivi per trucidare chi si era nascosto ed era poi rientrato a casa. "I numerosi monumenti innalzati nei luoghi ove sono avvenuti gli eccidi nazifascisti - è scritto nel sito del Comune di Fivizzano - sono un monito perenne affinché non debbano ripetersi mai più quegli avvenimenti che sconvolgono ancora oggi la coscienza e il pensiero".

Il totale dei civili massacrati furono 15 mila, ma su di loro è caduto un imbarazzante silenzio nel dopoguerra, il silenzio degli innocenti. Uno spiraglio tardivo si era aperto con la scoperta del famoso "Armadio della Vergogna" contenente dossier ingialliti e quasi illeggibili, scritti a mano o con una ormai logora impronta lasciata da una vecchia Olivetti 22. Correva il dopoguerra e la nuova Italia di Ferruccio Parri uscita dalla lotta di Liberazione non perse tempo a rintracciare i crimini commessi su civili: il Procuratore generale militare dell’epoca, Umberto Borsari, scrupolosamente annotò in un grande registro 2.274 casi.

Fu raccolto un fascicolo per ogni strage, molto spesso sulla base della documentazione fornita dagli alleati: Fosse Ardeatine (335 vittime), Marzabotto (oltre 800 vittime), Sant’Anna di Stazzema (560 vittime), Barletta (12), Matera (10), Vitulazio e Bellona (73), Napoli Ponticelli (25), Villa Volturno (47), Sparanise (28), Conca della Campania (39), Pietransieri di Roccaraso (140), Gubbio (40), Capistrello (33), La Storta (13), Lager di Fossoli e Bolzano (130), Saviore e Cevo di Valsaviore (10), Valle Aldriga di Mantova (10), Belluno (13 più vari altri), Pedescala (65), Santa Giustina (22), Sant’Anna Morosina (40), Tolmezzo e Torlano (32), Albenga (59), Santa Margherita Ligure e Portofino (38), Monte Turchino e Benedicta (174) Ceriniale (180), San Giustino (30), Vernia (26), Villa Dell’Albero (57), Certosa di Farneta (158), Monastero di Fianetta (150), Quota (71), S. Sepolcro (39), San Terenzo Monti (529), Fucecchio (100), Guardistallo (60), Ronchidosso (80), Ciano d’Enza (300), Castelnuovo Val di Cecina (83), oltre alle stragi dei militari come Cefalonia e Spalato.

Nel giugno del 1947 il Procuratore poté ottimisticamente annunciare il prossimo avvio di "oltre mille processi". La macchina giudiziaria, però, si inceppò piano piano con le elezioni del ’48, la fine dell’unità nazionale, la guerra fredda, l’invito degli americani a non chiedere estradizioni dalla Germania. Solo una decina di processi giunsero nelle aule dei tribunali e portarono alla condanna di Herbert Kappler per le Fosse Ardeatine a Walter Reder per Marzabotto. Nel gennaio 1960 con un semplice timbro e la scritta "archiviazione provvisoria", il nuovo Procuratore generale militare Enrico Santacroce seppellì 695 fascicoli riguardanti le stragi tedesche in Italia in uno scantinato della Procura generale militare, a Palazzo Cesi, in via degli Acquasparta a Roma, dentro un armadio chiuso a chiave e con le ante rivolte verso il muro. Per maggior sicurezza il vano era protetto da un cancello, ugualmente chiuso a chiave. Una tomba perfetta. Il quei giorni il secondo governo di Antonio Segni, monocolore Dc con appoggio esterno di monarchici e liberali, stava per concludere il suo breve tratto di vita per lasciare il posto a Tambroni.

L’atto che poneva il bavaglio alle inchieste sui nazi-fascisti sarà stato visionato da Segni o dall’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti? La frettolosa archiviazione mise in difficoltà anche i giudici tedeschi che negli anni Sessanta volevano processare i criminali del Reich. Dalla Procura generale romana, infatti, furono spediti in Germania solo venti fascicoli e nulla più, permettendo l’impunità a centinaia di persone con la coscienza sporca. A rompere quasi involontariamente quel segreto che il dottor Santacroce si era portato nella tomba nel 1975, dopo sedici anni ininterrotti a capo della Procura generale militare, fu nel maggio del 1994 il giudice Antonino Intelisano, che alla ricerca di prove a carico del capitano delle SS Eric Priebke, incriminato per la strage delle Fosse Ardeatine, incaricò i suoi collaboratori di setacciare ogni angolo possibile degli archivi.

E così a Roma, in uno sgabuzzino di Palazzo Cesi, sede degli uffici giudiziari militari, spuntò un armadio con 695 fascicoli sui crimini di guerra, una storia raccontata dall’inizio con passione da Franco Giustolisi, giornalista dell’Espresso e poi presidente del Comitato per la verità e la giustizia sulle stragi nazi-fasciste, affiancato da numerosi enti locali e Regioni, prima tra tutte la Regione Toscana. Tra il 1994 e il 1996 i dossier sulle stragi sono stati distribuiti alle varie Procure militari competenti che hanno rimesso in modo la macchina processuale cominciando da Priebke, Theodor Saevecke, Friedrich Engel (capo delle SS a Genova e organizzatore delle stragi in Liguria, condannato all'ergastolo dal Tribunale militare di Torino), l’SS ucraino Michael Seifert, rifugiatosi in Canada dopo aver seviziato e ucciso assieme il suo camerata Otto Sein decine di prigionieri nel campo di prigionia di Bolzano e infine condannato all’ergastolo a Verona. Gran parte dei fascicoli sono finiti alla Spezia in un edificio fine Ottocento ad un piano, un piccolo giardino e una cancellata attorno, assediata da nuovi palazzi e alti muri.

Un tempo proprio alle sue spalle funzionava una delle sale cinematografiche più frequentate della città, il Cinema Arsenale. Qui aveva sede la Procura Militare e l’annesso Tribunale Militale della Spezia, uno dei più importanti d’Italia per la vastità territoriale delle proprie competenze. Nel 1994 da Roma arrivò un camion contenete 214 fascicoli dell’Armadio della vergogna. La maggioranza di quegli atti è andata "esaurita" con decreti di archiviazione per la scomparsa degli indagati e degli indagabili o per l’impossibilità ad identificarli.

Ne restavano 64 tra i quali quelli relativi alle stragi di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto. In quell’elegante palazzo, coordinato dal Procuratore Militare Marco De Paolis, ha operato un pool di carabinieri altoatesini di lingua madre tedesca. Molti processi sono stati quindi conclusi, a cominciare da quello riguardante la strage di Sant’Anna di Stazzema. Questa storia poteva avere pure un bel titolo: dall’Armadio della Vergogna all’Armadio del Riscatto. Da uno scandalo durato 50 anni alla stagione giudiziaria che, grazie all’impegno profuso in primo luogo dalla procura militare spezzina diretta da Marco De Paolis, ha sanato la ferita nel cuore dei familiari delle migliaia di vittime degli eccidi, producendo un risultato processuale di grande rilevanza istituzionale: 57 ergastoli comminati.

Ma quali sono stati gli effetti reali sul piano dell’esecuzione dei verdetti? Zero. E questo, per la melina posta dallo Stato tedesco. Da quando De Paolis nel 2008 divenne procuratore militare capo a Roma, per la chiusura del tribunale spezzino imposto da un taglio alla spesa pubblica, in verità politicamente poco corretto per via dell’impegno dei giudici, si è battuto senza risultato per il trasferimento in Italia dei condannati in via definitiva. Ma nessuno ha mai risposto alle istanze dei ministri della Giustizia italiani allo Stato tedesco per dare corso alle pene in Germania. L’effetto pratico è che nel frattempo gran parte dei condannati hanno tirato le cuoia.

Ne restano in vita 5 che attendono, più che la convocazione della polizia tedesca, la chiamata del Creatore. Ora rimane il valore storico di quei processi e i relativi atti che, guarda caso, sono conservati proprio l’aula delle udienza dell’ex Tribunale militare, ora sede del Commissariato militare, lì dove si sono tenuti i processi sulle stragi più grandi per numero di vittime avvenute in Toscana e in Emilia, da quella di Sant’Anna di Stazzema a quella di Marzabotto, solo per citare le più presenti nell’immaginario collettivo. Di fatto dopo le inchieste giudiziarie aperte alla Spezia, dopo le prime condanne inflitte a Torino e Verona, l’istituzione di una commissione parlamentare formata da 15 senatori e 15 deputati che doveva indagare sull’insabbiamento dei dossier sui crimini nazi-fascisti, nulla è stato fatto, oltre il valore simbolico di onore alla memoria dei caduti. Resta così una pagina triste quella dell’occultamento dei dossier sulle stragi che chiama in causa l’asse strategico post-guerra basato sull’ostinato atlantismo del potere democristiano.

Di Marco Ferrari