Gente d'Italia

“E adesso vi racconto com’é nato il Boca Juniors, il club piú italiano del Sud America”

Su un cancello di latta color rosso c’è appeso il numero civico 267 in calle Pinzón. La casa è di diversi colori, rosso e grigio, come gran parte degli edifici della Boca, dipinti a seconda della pittura che si trovava a bordo delle navi. "Il 3 aprile i fondatori si sedettero tutti nella stanza da letto dei quattro fratelli Farenga. Più volte – assicura Juan Antonio Farenga junior – i ragazzi si accalcavano sui letti per discutere e prendere le prime decisioni. Ma non c’è dubbio che negli anni mi avvicinavo alla panchina di Plaza Solis con mio padre ogni 3 aprile per festeggiare l’inizio del sogno".

Passeggiare oggi davanti alla Bombonera incute un certo timore. La massiccia costruzione inaugurata nel 1940 con le sue forme rigonfie e le tribune inclinate verso il campo sembrano contenere tutto la memoria di una grande storia. L’emigrazione si fonde più dentro lo stadio che non nelle calli disadorne del barrio dove, ancora adesso, l’acqua la fa da padrone, diventando l’elemento coagulante. Mi trovo sotto l’ingresso principale della Bombonera lato nord. Questa scatola di cioccolatini dai colori giallo e blu dipinti sugli spalti ha una conformazione particolare, a forma di D. Ha tre lati alti e verticali, con curve di continuità, e un lato, quello della tribuna, stretto e più basso, quasi affilato. E anche le case gli stanno addosso per tre lati mentre il quarto, all’opposto della tribuna, ha un piazzale antistante e le abitazioni distanti.

Questa particolare sagoma determina una vocalità unica dello spazio: non a caso la tifoseria della Bombonera è chiamata La Doce – il 12° uomo in campo – poiché i cori si trasmettono sul campo come un’onda vocale. Seppur gli abbiamo affibbiato diversi nomi (prima Camilo Cichero, poi Alberto J. Armando), tutti lo chiamano Bombonera perché il suo progettista, l’architetto triestino Viktor Sulcic al momento della presentazione del progetto, basato sull’Artemio Franchi di Firenze, aveva ricevuto in regalo una scatola di cioccolatini dai colleghi, in particolare da Josè Delpini, che così lo ribattezzò.

Ho un amico che è cresciuto di fronte alla porta d’ingresso della Bombonera, una posizione in cui è difficile, in certi giorni, ottenere pace e tranquillità. Si chiama Juan Bautista Stagnaro ed è un regista di cinema. Ha realizzato film come Casas de Fuego, La Furia, El Amateur, Un Dia en el Paraiso, El Séptimo Arcàngel e sceneggiatore del film Camila, finalista all’Oscar 1984 come miglior film straniero. Suo padre è emigrato dalla Liguria, faceva il pescatore, è andato prima a Bahia Blanca e dopo alla Boca. Stagnaro si sofferma su un aspetto che sembra insignificante ma non lo è: "La Bombonera ha un'acustica perfetta. Si dice che le voci di cinquantamila persone coprano letteralmente il cemento. Per questo non è meno grande il peso del suo silenzio, nei giorni feriali".

Lui lo sa bene, ha vissuto con quei silenzi e quei clamori. Li ha nella testa, rimbombano al solo pronunciarli. La prima volta che è entrato oltre quelle muraglia possente che dominavano la finestra di casa sua è stato nel 1963: "Il campo era vuoto, le tribune vuote, guardavo il fossato mezzo pieno di acqua piovana che all’epoca separa le tribune dello spazio di gioco. Poi, all’improvviso, entrarono dei calciatori, gli eroi delle fatiche, lontano dalle immagini colorate delle copertine delle riviste. In quel silenzio si poteva sentire l'impatto del piede sulla palla, con un lieve ritardo dovuto alla distanza, un leggero disallineamento, un fallimento di sincronizzazione. I calciatori ridevano, si facevano degli scherzi, sembravano ragazzi, ma che ragazzi, uomini infantili, si spingevano l’un l’altro, si lasciavano cadere sull’erba, come bambini, lontano dalle gesta della domenica pomeriggio. Sembravano degli dei sprovveduti con i loro pantaloncini sbiaditi da ginnastica. C’era un solo spettatore nella cancha vuota, un ragazzo, io. Una inversione della logica dello sguardo, dall'interno verso l'esterno. Che pensavano gli dei del pallone di quell’adolescente che di tanto in tanto alzava lo sguardo dal libro e li guardava? L’adolescente leggeva, sognava e guardava. Era il titolare esclusivo del suo sguardo. Ancora ha tutta la vita davanti. Però i suoi sogni erano poveri, accessibili. Quale di quegli dei provocherà il delirio nella prossima finale di Coppa America che si terrà proprio là, in quel luogo, in quello scenario, in quel campo di calcio?".

Stagnaro mi porta nella gradinata dove era seduto quel pomeriggio del ’63. E ancora si domanda che cosa potessero pensare di lui che invece di gridare leggeva, quell’unico testimone di uno spazio proprio, di uno spazio che nella settimana non vive, in attesa di riprendere fiato alla domenica. L’esperienza di quell’attimo, mi suggerisce Stagnaro, ha segnato il resto della sua vita dominata dal segno dell’opposto: la realtà e il simbolo, il pieno e il vuoto, il silenzio e le grida, le visioni verticali e quelle orizzontali, la luce e l’ombra, l’azione e lo sguardo, la notte e il giorno. Siamo già in pieno set cinematografico: che cosa succede se si mettono assieme queste azioni alternative? Che cosa succede se i suoni si smuovono? E se il suono non è regolato, non è sincronizzato? Da lì discende la metafora, anche quella del pallone come specchio della vita. Soprattutto da queste parti del Riachuelo dove l’esistenza si è sdoppiata: perse le radici se ne cercano altre. E quelle, come detto, stanno appese proprio a questi spalti di doppio colore, come doppia è la percezione degli emigranti e dei loro discendenti. Poi il giorno della finale arrivò grigio e piovoso. Le tribune esplodevano. Adesso lo sguardo del chico GB è uno, uno solo tra mille e mille.

"Essere uno di una moltitudine, stretto nella folla, – racconta Stagnaro - dà l’illusione di sentirsi parte di un organismo, integrati agli altri, una parte di un unico. Così è alla Bombonera, corpi incastrati insieme in una unica volontà di movimento, che sale e scende le scale (in senso letterale!) senza che i piedi tocchino il pavimento. Si ha davvero il senso della verticalità che non dipende dalla volontà dei singoli ma dalla capacità di restare in sincronia con la massa compatta che va e viene in accordo con la musica di quel gioco rischioso".

Con qualche patema d’animo Juan Bautista Stagnaro confessa che quel match appartiene alla storia, Boca Junior-Santos, finale de Copa de Campeones de América (ora Coppa Libertadores). Dopo il 3-2 dell’andata i brasiliani conquistarono anche la Bombonera. "All’inizio de secondo tempo – rammenta adesso Stagnaro con una certa concitazione sportiva, a cinquant’anni dai fatti narrati, – il Boca conseguì un gol sucio, frutto di spintoni e rimbalzi, realizzato dal grande Sanfilippo. Ciò provocò una certa incazzatura degli uomini in maglia bianca che, messa la palla a centrocampo, veloci, con rapidi e sorprendenti passaggi, arrivarono in area e segnarono con Coutinho. Su di noi calò il silenziò.

La vostra effimera felicità era durata pochi minuti. Dovevamo ricominciare da capo. Il Boca prese il controllo del centrocampo, però i bianchi rubavano spesso la palla e rilanciavano. Così il Santos riuscì a segnare di nuovo all’82° con incredibile precisione. Non vi era giustizia al mondo? In uno spazio di tempo così limitato decadevano i sogni? Dorval, Didí, Coutinho, Pelé, Pepe. Sì, io vidi giocare il Santos di Pelè nella Copa America in casa mia, da casa mia, che era a pochi metri dal mito. Quella volta ho imparato il peso schiacciante del dolore senza metafore. Ma ho anche imparato la bellezza irraggiungibile della parola straniero".

Marco Ferrari

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