La notizia è che il Movimento Cinque Stelle si sfalda. È in atto il processo di erosione della base parlamentare pentastellata con i cosiddetti "peones" che cominciano a gettare la maschera e a mostrarsi umani. Troppo umani. La doppia mannaia dell’approvazione della riduzione del numero dei parlamentari e il crollo del Movimento nei sondaggi spinge, ogni giorno di più, i graduati grillini a mettersi in salvo accasandosi altrove. Non c’è una traiettoria precisa verso cui si orienta la spinta della forza centrifuga della crisi: deputati e senatori scappano in tutte le direzioni, dalla Lega a Italia Viva di Matteo Renzi, ma anche verso Forza Italia. Già, anche finire tra le braccia dell’arcinemico Silvio Berlusconi è possibile se qualcuno dalle sue parti ti lancia una ciambella di salvataggio.

Non v’è nulla di nobile nel fuggi-fuggi. Tuttavia, i grillini che scappano potrebbero accampare a giustificazione una speciale esimente di colpevolezza che discende direttamente dal clamoroso tradimento posto in essere dal vertice del Movimento in danno del suo elettorato. Il ribaltone ideale e programmatico compiuto da Luigi Di Maio, ma propiziato dalla volontà del padre-padrone Beppe Grillo, offre agli odierni fuggitivi il pretesto morale per saltare giù dalla nave che affonda. "Il Movimento non è più lo stesso, perciò lo abbandono". Questa in sintesi la giustificazione tipo che i parlamentari sul piede di partenza pensano di esibire come salvacondotto presso l’elettorato che li ha votati e che da domani li troverà su altri fronti, sotto altre bandiere.

E il vertice pentastellato come reagisce all’esodo? Con argomenti interessanti ma declinati nella maniera sbagliata. Come il caso della riforma dell’articolo 67 della Costituzione nella parte in cui prevede che il parlamentare eserciti la sua funzione senza vincolo di mandato. È stato Luigi Di Maio, ieri l’altro, a dire che bisogna introdurre il mandato imperativo. Messa così, il capo politico del Cinque Stelle la fa sembrare una barzelletta, della serie: scappati i buoi chiudiamo la stalla. Pensare di trattenere i parlamentari nei loro stalli con la forza coercitiva della legge è una bestialità. Tuttavia, la politica nel suo complesso farebbe cosa saggia se s’interrogasse sulla questione della rappresentanza che, dall’avvento della Seconda Repubblica, è stata ripetutamente vulnerata.

Nella scorsa legislatura i cambi di casacca sono stati da record: 566 passaggi di gruppo, 313 alla Camera e 253 al Senato. La circolazione dei parlamentari ha interessato il 36,53 per cento degli eletti; 48 di essi hanno cambiato 3 volte gruppo nell’ambito della legislatura (fonte dati: Openpolis). Siamo oltre la fisiologia dei cambi di posizione di singoli parlamentari dubbiosi circa la propria appartenenza politica, siamo nella patologia del rapporto di fiducia che dovrebbe legare il delegato agli elettori. Senza voler mettere il bavaglio a nessuno, la questione della coerenza dei parlamentari va posto, senza tabù. Se l’idea di introdurre il vincolo di mandato tout court è un’utopia massimalista, una forma temperata di condizionamento del rappresentante agli orientamenti di fondo dei suoi elettori deve essere studiata. Per iperbole, non è concepibile che un gruppo di parlamentari, o anche uno solo, eletti in Parlamento sulla base di un programma dai forti contenuti repubblicani, una volta in aula voti una legge che ripristini la monarchia.

Ribadiamo, è un’iperbole. Ma neanche tanto, perché è ciò che è accaduto con i Cinque Stelle, i quali da movimento anti-élite e della protesta anti-establishment canalizzata nelle forme della democrazia parlamentare, si sono ritrovati dalla sera alla mattina a fare il partito difensore degli apparati e dei poteri forti. A voi sembra normale? E Di Maio, che verrà ricordato nei libri di storia come il più spericolato ribaltonista della politica patria dal dopoguerra, che oggi vuole arrestare la fuga dei suoi varando una modifica costituzionale ad hoc, somiglia a quel bue che si ostinava a chiamare cornuto l’asino. Per restare seri, perché non lavorare all’introduzione di una condizionalità nell’esercizio della funzione parlamentare? Magari limitata alla sola espressione del voto di fiducia al Governo che la forza politica a cui si appartiene decide di sostenere. Si obietterà che in questo modo si subordina la libertà del parlamentare alla volontà del partito. Per qualcuno ciò sarebbe un atto eversivo per colpire la democrazia parlamentare.

A riguardo riteniamo che parlare di eversione della forma democratica dello Stato, come suggerisce il senatore ex pentastellato Gregorio De Falco sia errato. E la temuta subordinazione al partito d’appartenenza, perché mai dovrebbe suscitare tanto sdegnato scalpore? Di là dal fango scaricato a iosa sulla reputazione della politica, da Tangentopoli in poi, bisognerebbe ricordare che le organizzazioni partitiche non sono i lupanari della democrazia ma organismi di rilievo costituzionale, come sancisce l’articolo 49 della Carta. La norma scolpita nella "Costituzione più bella del mondo" affida ad essi l’alto compito di concorrere "con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Vi sembra uno scherzo? Si è fatto un gran danno alla democrazia nel demonizzare puntualmente il ruolo dei partiti, nel chiamarli liquidi, di plastica, personali o che altro. È tempo che la politica ritorni a occuparsi del Paese nelle forme previste e codificate dalla Carta costituzionale.

In tale prospettiva non sarebbe affatto sbagliato riconnettere la funzione parlamentare al soggetto collettivo che impersona e sistematizza la volontà del corpo elettorale. Non si prenda sotto gamba la questione perché, se non lo si è capito, la spinta della volontà popolare a rivolgersi a figure di uomini forti, in grado di assumere la responsabilità della decisione in sfregio ai riti e alle logiche del parlamentarismo, deriva dagli anni di reiterato malcostume parlamentare di disattendere la delega ricevuta all’atto della manifestazione elettorale della sovranità popolare. Si rimedi finché si è in tempo, prima che la maggioranza degli italiani assuma la consapevolezza che nella vita del pane non si può fare a meno ma del Parlamento e dei parlamentari sì. Che non è propriamente una bella cosa da pensare, figurarsi a vederla praticata.

CRISTOFARO SOLA