Bello non era, un adone proprio no. Interessante sì, di aspetto intrigante. Il naso adunco, i capelli rossicci, gli occhi azzurri, comunque un mostro di simpatia. Tanta roba, ma non il fisico del conquistatore. Non un tombeur de femmes, l’attore, formidabile caratterista al cinema e al teatro. La napoletanità, quella vera, buona, positiva, per farsi piacere dalle donne. Una dolce arma. Racconterà che gli era servita per mettere su, da scapolone, anche un flirt con Macon Marilyn Monroe. Marilyn chi? Proprio lei, la bellissima tutte curve, la donna più desiderata da tutti gli uomini del mondo. Possibile mai? "Giuro, è successo, ho avuto un breve flirt con lei, con Marilyn Monroe", dichiarava nel pieno della sua età senile Carlo Croccolo.

Se n’è andato sabato all’alba, nella sua di Castelvolturno, non lontano da Napoli, dove si era ritirato con la moglie amata. Lei e lui legati al concetto della fedeltà pura. Se n’è andato a novantadue anni Carletto, attore e doppiatore, spalla, complice sulla scena, imitatore, tutto di Totò, l’indimenticabile Principe Antonio de Curtis, immortale re della comicità. Un mito inattaccabile Totò; l’attore che visse due volte lui. In bilico sempre tra due identità, come nella grande eterna tradizione della commedia dell’arte. Un artistone, Carlo Croccolo. Davvero se stesso quando interpretava la parte dell’alter ego di qualcun altro. Da maggiordomo a cattivo papà, nessun ruolo per lui era ostico o vietato. Dall’avanspettacolo al cinema, spesso in ruoli del sottomesso, ma sempre con dignità. Carlo Croccolo sinonimo di risate. Centodiciotto film in carriera, recitò anche con Eduardo, non solo con Totò. L’erede preciso dei caratteri italiani della Commedia cinematografica. Era lui, completamente a suo agio sempre, davanti alla macchina da presa come sulle tavole del palcoscenico. Ma soprattutto quando dava la voce a Totò, imitato alla perfezione negli anni in cui il Principe non era più nella condizione di recitare e parlare in contemporanea. È stato Oliver Hardy, il popolarissimo Ollio, e Harry Belafonte, Vittorio De Sica, e tanti altri. Uno straordinario imitatore a corredo dell’attore di qualità. Un doppio, classico, vero, Carlo Croccolo. Dinamico, in un vertiginoso volteggio tra un carattere e il suo opposto. Come due estranei che condividono la stessa identità. Impegnato in lavori di Eduardo Scarpetta e Moliere, recitò diretto da Strehler e al Living Theatre di Julian Beck a New York, con grande successo di pubblico e di critica. Presenza apprezzata a teatro, protagonista o spalle in commedie leggere. Diresse due spaghetti-western usando uno pseudonimo, nel ’61. Gli andò male, una scelta infelice. E il bagno economico lo costrinse a defilarsi. Napoli, la sua città, l’ha salutato nella Chiesa degli Artisti, in un angolo di piazza Trieste e Trento. Al centro la fontana del carciofo dono del comandante Achille Lauro, l’allora sindaco monarchico; di fianco, il teatro di San Carlo, un’ala di Palazzo Reale, e il mitico Caffè Gambrinus. Carlo Croccolo e le sue maschere. Ingenue entrambe, Il Pinozzo soldatino dell’Alta Italia, tipica figura da riviste o avanspettacolo, sempre uguale ne "I cadetti di Guascogna", "Auguri e figli maschi", "Bellezze in bicicletta". Il finto tonto Carlo Croccolo che amava la bella vita. Sì, un viveur. Premio Donatello, che non è poco, proprio no; è tanta roba. Nella commedia all’italiana, amara e adulta negli anni del suo boom, sembrava non ci fosse posto per uno come lui. E invece no: l’attore rinacque all’improvviso negli anni Settanta, malgrado la commedia sia diventata più sporca e più grottesca. Un nuovo Croccolo entra in scena e se ne impadronisce, lui che sembrava negato al ruolo di protagonista assoluto. Come se si presentasse desnudo in "Casotto" di Sergio Citti, laddove rilegge i suoi vecchi ruoli e quelli del suo maestro Totò. Il barone con la fissa delle scommesse in "Mi manda Picone". Il maggiordomo in "O’ Re" gli consegna il Nastro d’Argento. Infine, il bottegaio romano grossier di "Tre uomini e una gamba". Andando avanti con anni, il prode Carlo sovente mise mano alla voce e ai ricordi. Rivelazioni sui dettagli della propria carriera e di quella vita che, nel tempo, lo aveva reso sempre più bizzarro. E sulle interpretazioni puntualmente affrancate dalla napoletaneità eccessiva e pesante. Un napoletano tollerante, lui, molto particolare. "Picozzo Molliconi" diventò immediatamente un tormentone per i bambini napoletani, che gradirono parecchio. Originale e imprevedibile nelle scelte di vita, prese la cittadinanza canadese. Comprò una casetta in Canada. E pure tra alti e bassi non perse mai il gusto forte e brillante dell’autoironia. "La mia vita cosa è stata? Una pernacchia", in risposta alla domanda di un giornalista. Più autoironica di così proprio non poteva.