Quasi cento giorni dopo la nascita del governo Conte-bis, il Partito democratico vive il periodo peggiore della sua storia. La nuova leadership di Nicola Zingaretti sembrava, sulle primissime, avere portato un sussulto di orgoglio, un brivido di rinascita, subito certificati da un risultato alle Europee discreto in senso assoluto, buono se confrontato col 18% delle ultime Politiche.

Soprattutto sembrava prospettarsi un riequilibrio di forze tra Partito democratico e Movimento 5 Stelle, in quello che sarebbe il derby dell’elettorato di sinistra: il Movimento 5 Stelle in caduta libera poteva diventare una grande opportunità di riconquista di molti vecchi voti da parte del Pd. Tra la primavera e l’inizio dell’estate, non si può dire che il Pd fosse in buona salute, ma almeno lasciava abbastanza ben sperare.

Povera solita illusione. La crisi di Ferragosto innescata dal calcolo sbagliato di Matteo Salvini scatenava infatti un terremoto, insinuando nei parlamentari preoccupazioni più materiali di un’astratta e neppure così ben meditata strategia di ripresa. Se infatti da una parte la fine del governo gialloverde avrebbe potuto rappresentare l’occasione della "mazzata" finale (o quasi) al Movimento 5 Stelle, dall’altra l’incubo di un governo direttamente guidato da Salvini era ben più forte e concreto, prima ancora che per l’Italia, per la sorte individuale di decine di deputati e senatori.

La novità assoluta che ne è derivata è la saldatura improvvisa, nel giro di qualche notte, tra due correnti di pensiero e soprattutto di interessi, inizialmente opposte: quella renziana, anti-grillina fino al midollo, tanto da coniare l’espressione #senzadime per sancire la propria antropologica alterità rispetto all’universo a 5 Stelle, e la corrente autenticamente filo-grillina, quella capitanata, per intenderci, da Dario Franceschini, il campione e custode di un sogno romantico, la fusione culturale e identitaria di due anime sorelle.

Tutti uniti, ufficialmente per la salvezza dell’Italia (chi mai non cerca la salvezza dell’Italia?), concretamente in nome dell’anti-leghismo. Per una ventina di giorni, il Partito democratico si sente fortissimo. Salvini è un "pugile suonato", la sua macchina propagandistica è stata definitivamente scassata, Conte è un grande statista, Di Maio un alleato affidabile, Renzi un discolo che però ha giurato fedeltà al governo per quattro anni. Inutile dire che, a partire dalla seconda metà di settembre, tutto il prevedibile ha cominciato a verificarsi. Renzi passa infatti al piano B del suo segretissimo e impenetrabile piano di sopravvivenza, fuoriuscendo dal Pd e cominciando il quotidiano cannoneggiamento su Palazzo Chigi e sul suo vecchio partito, arrivando perfino a dichiarare, dal basso del suo immobile 5%, di volerne prosciugare il consenso (ormai dal di fuori, per quanto avesse abbondantemente iniziato dal di dentro).

Le elezioni in Umbria, nelle quali Dario Franceschini ha l’occasione di sperimentare il piano B del suo manifesto sogno romantico di integrazione culturale e politica tra due elettorati separati alla nascita, vengono perse rovinosamente, ma siccome è coinvolto "soltanto l’1% della popolazione italiana", si è trattato solo di un test, che nulla compromette nel presente e nel futuro. Ad accadimenti puramente politici, cominciano pure a sommarsi le difficoltà della vita di tutte i giorni, le uniche che poi toccano davvero la gente. Le crisi aziendali, tra cui quella gigantesca in corso sull’ex-Ilva.

La politica sui migranti che al momento non è cambiata di una virgola, se non nelle dichiarazioni certo più educate e costruttive del nuovo ministro Lamorgese. I danni ambientali causati dagli eventi atmosferici di autunni sempre più caldi, ma soprattutto la manovra economica. Una manovra che sembra quella dell’ultimo governo Prodi (2006- 2008), in cui a restare impressi nella memoria collettiva sono più gli annunci e le discussioni su nuove accattivanti tasse (ovviamente denominate in inglese come la plastic tax) che gli interventi da piccolo cabotaggio come la mini-riduzione del cuneo fiscale e gli asili nido gratis.

Un cammino difficilissimo, che nessuno dei massimi teorici del nuovo governo aveva osato immaginare ad agosto, presi com’erano dalla paura di non essere rieletti in caso di ritorno alle urne (paura a sua volta rielaborata come la necessità di "evitare l’aumento dell’Iva"). Ed eccoci qui, a metà novembre, a neanche cento giorni dalla crisi del Papeete Beach, con un governo nato in poche notti e costruito ancora peggio col metodo Cencelli, appeso al filo di un altro voto che coinvolgerà, a fine gennaio, il 7% della popolazione italiana, ma soprattutto rappresenta un simbolo per la sinistra, l’Emilia-Romagna.

Mentre intanto Salvini non è mai sceso sotto il 30% in nessun sondaggio, il Pd finisce nuovamente sotto il 20, Meloni sale per la prima volta al 10, e perfino quello statista del presidente Conte ha cominciato a mostrare i primi segni di un calo di fiducia da parte dei cittadini. Non bastasse, il colmo della situazione è che oggi, nel Pd, qualcuno pensa addirittura di tornare alle urne anzitempo, cioè staccare la spina per primi pur di non lasciarsi logorare, perché "così non si può andare avanti".

In sostanza, il Partito democratico si condannerebbe alla sconfitta, senza neppure conservare quel briciolo di coerenza e dignità che, almeno, gli sarebbe derivato tre mesi fa, se la saldatura di interessi tra renziani e franceschiniani non si fosse realizzata, e si fossero indette nuove elezioni. Sarebbe il suicidio del Pd, commesso per sottrarsi al suo possibile omicidio da parte di Salvini in Emilia-Romagna. Una sceneggiatura diabolica, per un thriller triste. Per fortuna del Pd, o forse no, rimane ancora Dario Franceschini, che al sogno romantico di una fusione di principi irrinunciabili e costitutivi ancora ci crede, e forse è rimasto l’unico ingenuamente innamorato della "vocazione alla santità" del Pd. Un partito sacrificale, capace di fare sempre la cosa sbagliata, ma almeno immolandosi per la "salvezza dell’Italia".

MARCO D'EGIDIO