Il disastro della centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi a Ōkuma, nel Giappone nordorientale, fu causato dallo tsunami a seguito del terremoto del Tōhoku, l'11 marzo 2011. Il sisma, di magnitudo 8,9-9,0 con epicentro in mare a circa 30 km dalla costa giapponese, fu il più potente mai registrato nel Paese e il quarto a livello mondiale. I reattori interruppero automaticamente le loro reazioni di fissione. Lo tsunami che arrivò in seguito distrusse però i generatori di emergenza che dovevano far funzionare le pompe di raffreddamento dei reattori, portando a tre crisi nucleari, esplosioni d'aria e idrogeno e il rilascio di grandi volumi di materiale radioattivo.

In sé, il disastro—almeno sotto il profilo nucleare—costò un’unica morte documentata a causa delle radiazioni. Scioccò però il mondo e, soprattutto, il Giappone. Nei 14 mesi successivi, furono chiusi tutti i 54 reattori nucleari del Paese a titolo precauzionale, con il risultato che la produzione elettrica nazionale fu tempestivamente dirottata verso l’uso di risorse petrolifere. Prima del disastro, circa il 30% dell’elettricità consumata in Giappone era di produzione nucleare. L’improvvisa necessità di rifornirsi di idrocarburi sui mercati mondiali portò però ad un’impennata drammatica dei costi energetici nazionali, toccando il +38% nella regione di Tokyo. Seguì di conseguenza una forte riduzione nei consumi, particolarmente durante le stagioni più fredde.

I dubbi sul nucleare in un paese che aveva subìto l’unico bombardamento atomico della storia sono più che comprensibili, ma l’alt al nucleare fu la risposta ottimale? Secondo tre ricercatori NBERMatthew Neidell della Columbia University, Shinsuke Uchida della Nagoya City University e Marcella Veronesi, dell’Università di Verona—probabilmente no. I tre, nella ricerca "Be Cautious with the Precautionary Principle: Evidence from Fukushima Daiichi Nuclear Accident", dimostrano che le precauzioni prese dopo il disastro hanno ucciso molte più persone del disastro stesso. Ciò soprattutto per effetto del pesante freddo invernale subìto da chi non poteva più permettersi di riscaldare la propria casa. Calcolano che i prezzi elettrici maggiori abbiano prodotto "almeno" 1.280 morti in più nel periodo 2011-2014. Siccome i dati impiegati coprono solo le 21 più grandi municipalità giapponesi—il 28% della popolazione nazionale—l’effetto sul Paese intero è certamente molto maggiore. Ciò a fronte di una stima cumulativa nel tempo di 130 fatalità direttamente attribuibili al disastro e di altri 1.232 risultanti dal processo d’evacuazione dopo l’incidente.

"Ciò suggerisce— commentano gli studiosi—che la cessazione della produzione dell’energia nucleare contribuì a causare più morti dell’incidente stesso". Gli autori chiamano in causa l’utilizzo aggressivo del "principio precauzionale", un termine che richiama una politica di condotta fortemente cautelativa per quanto riguarda le decisioni politiche ed economiche in relazione alle questioni scientificamente controverse. È una sorta di rifacimento del principio di Ippocrate, che avvisava i medici: Primum non nuocere. Pretendere una fredda e razionale risposta da parte dei policy makers—e del pubblico—davanti a un disastro così spettacolare e così vicino ai "nervi" nazionali probabilmente non è del tutto ragionevole. Come consiglio generale a "pensare prima di saltare" ha però la sua validità.

JAMES HANSEN