Cerco nel dizionario la parola "pudore" e trovo tanti significati, ma tutti convergenti: "senso di vergogna e riserbo, specialmente per ció che concerne il sesso e la sessualitá"; poi ancora: "per pudore non mostra il suo affetto; avere pudore; offendere il pudore". E anche per estensione "discrezione, ritegno, riservatezza, imbarazzo a esibire la propria interioritá". Insomma una parola di solo sei lettere, ma che dice tante cose: e sono tutte cose che hanno a che vedere con la propria intimitá, con la necessita di preservare dalla vista altrui quanto di piú sensibile e profondo vi é in noi stessi. Cosi é, o almeno cosí era fino a pochi anni fa, prima che apparissero Internet, la "www" e le reti sociali (Facebook, in primis).

Se nel passato, il senso del pudore (anche denominato "senso comune del pudore"), evitava l’esposizione personale dei nostri fatti privati ad un ampio pubblico, che includeva familiari e amici, oggi attraverso le reti abbiamo costruito vetrine digitali attraverso le quali ci esponiamo al mondo continuamente. Conservo i miei album di foto di un lungo percorso di vita, e non vi é nessuna immagine che mostri - ad esempio - un bacio. Perché il bacio, il semplice bacio, il bacio con l’essere amato, era qualcosa che dovevamo conservare fuori dalla vista degli altri. Il bacio apparteneva a noi e all’altra persona, e tutti avremmo provato un senso di imbarazzo a mostrarlo pubblicamente ad altri attraverso una fotografia.

Oggi sulle reti si dilegua il senso del pudore: baci, abbracci, promesse d’amore, opinioni sindacali e politiche, foto di ogni tipo che andrebbero conservate con discrezione, appaiono nella pagine digitali delle reti. Molti pensano che il mio ripudio a questa forma di mostrare in vetrina la propria intimitá sia cosa di altri tempi. Comunque resisto, perché considero che non é questione di mode o di vetrine; la protezione del pudore e della propria intimitá é stata una conquista ottenuta nei secoli per evitare discriminazioni, persecuzioni e via dicendo. Oggi le Costituzioni nazionali proteggono il cittadino contro coloro che voglio intromettersi nella sua intimitá per conoscere tendenze politiche, sessuali e sindcali. E cosa strana, é proprio il cittadino, che ormai non ha piú ritegno e con spensierata leggerezza espone la sua vita privata in pubblico.

Ricordo che all’inizio della mia carriera - stiamo parlando degli anni ’80 - esistevano commissari pensionati che a richiesta degli imprenditori investigavano segretamente i lavoratori per conoscere le tendenze sociali e sindacali e cosí arrotondare la pensione. Oggi quei commissari hanno perso questo "lavoretto", perché sono i lavoratori stessi che mettono in rete cosa pensano, a chi votano, dove svolgono le loro azioni sociali o l’appartenenza sindacale. E se hanno qualcosa contro l’imprenditore, lo dicono in rete, a rischio poi di essere licenziati. Infatti si moltiplicano i licenziamenti per l’idiota ostentazione di tanti pensieri, immagini e questioni personali posti dagli stessi lavoratori in rete. Lo dico a voce forte ai miei studenti: non esponete nelle reti la vostra vita, le vostre foto, le foto dei figli o nipotini minorenni. State attenti, che gli altri guardano. Mi rispondono che non é vero, che le reti sono fatte solo per comunicarsi tra amici. Questo é falso, ormai tutti in modo palese o occulto possono conoscere i contenuti delle reti.

Le conseguenze non sono innocue: un fidanzamento riportato con ampi commentari in rete, una provocazione politica, una scena poco glamorosa uscita su Facebook, possono essere l’origine di molti grattacapi. Ciò é vero nella vita comune, ma anche nella vita operosa dell’ufficio o della fabbrica. Mia moglie ormai mi considera un dinosauro, che non capisce l’importanta delle reti. Quando viaggiamo mi stanco di dirle di non postare le nostre foto sul suo Facebook. Si arrabbia, crede che io voglia nascondere il nostro amore e i nostri viaggi agli altri. Io stento a farle capire che é una questione di privacy: tra l’altro, forse - prima di viaggiare - ho detto a un cliente che andavo a un convegno a Buenos Aires, e non mi va che mi veda in Facebook con una "piña colada" in mano su una spiaggia di Cancún. Lo so, la mia é una battaglia persa. Tutti amano mostrarsi nelle reti, senza pensare che in tal modo perdono il meglio di sé stessi: il diritto alla propia intimitá - o come ben dice il dizionario "interioritá", che non é altro che il diritto di ogni persona ad essere lasciata sola nello spazio intimo della propria identitá.

JUAN RASO