Da qualche tempo, è stato osservato, i banchetti dei maggiori esponenti del turbo-capitalismo che domina il mondo ‘globalizzato’, si aprono con l’esaltazione dei grandiosi risultati ottenuti da una competizione senza più freni e da un capitalismo capace di promuovere inauditi mutamenti nelle strutture della società moderna.

Quei banchetti sontuosi si concludono però, clamoroso non sequitur, col rituale compianto sul declino della famiglie e dei ‘valori’ tradizionali: quegli stessi valori che proprio il turbo-capitalismo ha in gran parte condannato a un inarrestabile declino.

Non si tratta più, infatti, del tradizionale conflitto ricchi v. poveri, ma dei cambiamenti strutturali provocati dalle nuove, impetuose forme  di capitalismo, rivelatesi fattori  di devastazione dei tradizionali tessuti sociali, del lavoro, dei rapporti di vicinato, di comunità, persino di ideologia. Quel meccanismo impietoso sta stritolando vite e relazioni umane al di là delle consuete distinzioni e a tutti i livelli. Le principali cause di differenziazione sociale spariscono, sacrificate all’uniformità imposta dalla gestione globale e  trans-nazionale dei consumi e dei servizi.

Questo fenomeno imponente quanto – all’apparenza inarrestabile – ha colpito soprattutto il ceto medio-impiegatizio, quello dei cosiddetti white collar, al punto di rendere quasi più  conveniente e redditizia la vecchia, obsoleta condizione dell’operaio blue collar. La IT (information technology) ha portato e sta portando alla sparizione di interi campi di lavoro ‘di concetto’, di intere categorie di lavoratori intellettuali (banche, assicurazioni,servizi finanziari, professioni legali )  che sino a non molto tempo  eravamo abituati a considerare indispensabili e, a loro modo, privilegiate.

Questo accade senza che le nuove tecnologie si siano mostrate in grado di creare a loro volta nuove inedite opportunità di lavoro ‘intellettuale’. Senso di fallimento e frustrazione individuali ne sono stati la conseguenza: oggi un operaio metallurgico americano guadagna molto più di un impiegato nei settori tradizionali del commercio e dei ‘servizi’.

E’ la gig economy, bellezza!

Non solo: queste forme di lavoro – rese sempre più ‘volatili’ e precarie dalla tecnologia –  creano in chi le svolgeva e si era abituato a uno stile di vita ‘affluente’,  un senso di impotenza e dis-adattamento, rispetto a chi  – al contrario – si avvantaggia in modo sproporzionato di questa trasformazione epocale. Ne deriva, inevitabile, la disponibilità a invocare forme autoritarismo, in grado di rimettere le briglie al nuovo capitalismo.

E’ questo il terreno ideale per la destra conservatrice  di tutto il mondo democratico. Da una parte sono precisamente i fautori e gli interpreti di quella destra a provocare i cambiamenti strutturali che devastano le vite dei ceti medio-piccolo borghesi. Dall’altro lato, è proprio quella destra conservatrice e – in forme ancora inedite – francamente  fascista, a raccogliere i frutti della disperazione e dello spaesamento dei ceti medi ( sempre più confusi con i vecchi ceti proletari), facendosene interprete, nella richiesta di governi ‘forti’ e autoritari, i soli – si pensa – capaci di reintrodurre le vecchie differenze sociali. Ma la tanto negletta Storia insegna che capitale e fascismo finiscono inevitabilmente per mettersi d’accordo, anche se ognuno con una riserva mentale che finisce per essere travolta dagli eventi.

La sinistra moderata non può offrire che i soliti rimedi: più redistribuzione, più assistenza pubblica, più sostegno alle categorie disagiate ed emarginate, a fronte di risorse sempre più esigue e di una manifesta incapacità di gestirle adeguatamente.

Perché lamentarsi e stracciarsi le vesti, dunque, se un nuovo – inedito – fascismo rischia di affermarsi al di qua e al di là dell’Atlantico?

DI MICHELE MARCHESIELLO