Per far cosa? Gira e rigira, anche le elezioni in Emilia Romagna e Calabria hanno confermato che la domanda continua a restare senza risposta: per far cosa il centrodestra andrebbe al governo? Chi sperava che la leggera frenata della Lega nel fortino rosso - unita a quella più consistente in Calabria - accendesse finalmente una discussione seria sul merito delle cose da fare, al fine di ricostruire un’alleanza di governo per la Nazione, ha dovuto incassare l’ennesima delusione.

I leader della coalizione hanno pensato bene di usare l’esito del voto per avviare un duello su nomi, candidature e posti in vista delle prossime Regionali. Una discussione tra apparati nell’eterna campagna elettorale italiana che lascia irrisolti tutti i nodi che rendono instabile l’alleanza, nonostante essa rimanga maggioritaria nell’elettorato. L’incognita principale è e resta Salvini.

Se domani il capo leghista tornasse al governo, ma stavolta come leader del centrodestra, che cosa farebbe? Varerebbe un’altra quota 100 con una nuova ondata di prepensionamenti? Aumenterebbe ulteriormente il debito pubblico? Voterebbe un nuovo decreto dignità che ha provocato il record di precari? Proporrebbe nuovi incrementi di spesa pubblica corrente? Continuerebbe a parlare di lotta alla droga senza varare un solo provvedimento concreto per tradurre le parole in fatti? Confermerebbe o abolirebbe il reddito di cittadinanza? In Europa cercherebbe un’intesa col Ppe o insisterebbe in alleanze che condannerebbero l’Italia alla marginalità? Continuerebbe a definirsi garantista mentre al citofono mette alla gogna le persone, magari dopo aver votato la legge che abolisce la prescrizione, salvo poi cambiare idea e dire che la colpa è solo del M5S?

Ecco, M5S. È quello il peccato originale dei leghisti, cui sono seguiti tutti gli altri. Immigrazione a parte, durante i 15 mesi di governo gialloverde Salvini ha dato il via libera alle peggiori porcherie assistenzialiste e stataliste tipiche della sinistra. Peggio ancora: ha continuato a difenderle anche dopo la crisi d’agosto. Senza un minimo di autocritica. Non è un caso se tutte le principali misure economiche del Governo gialloverde siano state confermate in blocco dall’Esecutivo giallorosso. Altro che razzismo e altre sciocchezze simili: le ambiguità del centrodestra sono ben più gravi e profonde. Le cose non vanno certo meglio guardando gli alleati di Salvini.

Quando Berlusconi e la Meloni parlano di «gioco di squadra», «condivisione» o «percorso concordato», non hanno certo in mente le contraddizioni e i nodi programmatici da sciogliere per trasformare l’alleanza elettorale in un’alternativa di governo credibile. No. Il leader di ciò che resta di Fi e la presidente di Fdi intendono difendere i loro candidati governatori dall’assalto leghista. È la logica dell’orticello da conservare che a nulla serve nella prospettiva di un rinnovato progetto che metta in sicurezza l’Italia. Perché mentre il teatrino dei partiti continua e il Governo tira a campare per non tirare le cuoia, le aziende chiudono e la Nazione vive una crisi demografica e produttiva drammatica.

Salvini deve dunque decidere se restare capo della Lega o diventare leader del centrodestra. Ammesso che il centrodestra gli interessi davvero come progetto politico, e non solo come taxi per portare i suoi uomini alla guida delle Regioni e arrivare a palazzo Chigi. In quest’ottica - per cominciare - sarebbe bene che tutti respingessero categoricamente qualsiasi ipotesi di alleanza con i grillini di rito "dimaiano". Magari in un Parlamento dove, grazie al proporzionale, le intese si fanno dopo il voto e non prima, gabbando gli elettori. Proprio com’è accaduto all’indomani del 4 marzo 2018. L’ancoraggio al centrodestra da elettorale deve diventare politico. Altrimenti non sarà credibile.

VINCENZO NARDIELLO