Gente d'Italia

L’altro ricordo, il “sentiero dei fili spinati” italiani

Ogni Paese ha la sua «giornata del ricordo» e un modo di celebrarla. In Italia il 10 febbraio si sentono discorsi astiosi contro la ferocia di «nemici barbari» e da noi commemorazione vuol sempre dire bandiere, divise, gagliardetti militari; bene accetti ultimamente anche quelli della X Mas e sodali nonostante siano passati alla storia per rastrellamenti di ebrei, torture ed esecuzioni sommarie di partigiani. Per la Slovenia la Seconda guerra mondiale iniziò il 6 aprile del 1941, quando la Germania, seguita a ruota dai suoi alleati, attaccò la Jugoslavia e la Provincia di Lubiana si trovò sotto il controllo delle truppe italiane. Soltanto il 9 maggio del 1945 Lubiana fu libera. Quattro anni di occupazione, questo il ricordo di Lubiana che si commemora, nel weekend più vicino al 9 maggio, in un modo particolare: con una passeggiata tutto intorno alla città, lungo il "pot spominov in tovarištva" (sentiero della memoria e della solidarietà) che segue ed affianca i segni ancora rimasti dell’occupazione italiana. Una passeggiata lunga trentacinque chilometri sul tracciato che aveva chiuso la capitale slovena dentro un muro di reticolati. Finché c’era la Jugoslavia, partecipare a questo appuntamento era un obbligo per tutti gli abitanti di Lubiana: ognuno con la propria organizzazione, fabbrica, scuola, bandiera, stendardo. Si potrebbe pensare che, finito l’obbligo e dopo tanto tempo e tanti cambiamenti, sia rimasta poca gente a ripercorrere quel sentiero in ricordo degli anni di guerra o, anzi, degli anni in cui Lubiana era un unico grande campo di reclusione. La tradizione è invece rimasta, praticamente imposta a furor di popolo dopo che, alla dissoluzione della Jugoslavia, per qualche anno non se ne era fatto più niente. I bambini delle scuole materne raggiungono il percorso tutti assieme il giovedì precedente e il venerdì si mettono in marcia gli altri studenti. Il sabato (quest’anno cade proprio il 9 maggio) il percorso accoglie chiunque voglia provare a percorrerlo tutto oppure solo pochi chilometri; si entra e si esce quando si vuole e in qualsiasi punto faccia comodo, i mezzi pubblici cittadini sono gratuiti se si ritiene di avere camminato abbastanza; finirlo tutto vuol dire portarsi a casa anche una medaglia-ricordo. Al check-point si prende il cartellino dove raccogliere i timbri delle diverse tappe, un succo di frutta, una mela, una bottiglietta d’acqua: si è dentro ufficialmente a quello che in quei tre giorni è il "Pot ob žici", il "Sentiero del filo spinato" dove l’XI Corpo d’Armata dell’esercito italiano, durante la notte e al mattino del 23 febbraio 1942, aveva collocato i reticolati per circondare la città. Furono subito perquisizioni e arresti di massa: il 25 marzo, in una relazione al Ministero dell’Interno, l’Alto Commissario della provincia di Lubiana Emilio Grazioli riferiva di 20.037 persone fermate solo nel primo mese. Nel rastrellamento di giugno erano stati arrestati 800 studenti con altri 5.000 uomini inviati al campo di concentramento di Gonars in Friuli. Il 4 luglio il generale Orlando affermava di aver «tolto dalla circolazione oltre un quarto degli uomini validi di Lubiana». D’altra parte, il tribunale militare di guerra a Lubiana, in meno di due anni, avrebbe svolto 8.737 processi contro 13.186 imputati. Condanne a morte, ergastoli, decine di anni di reclusione… Quando si entra nel percorso, però, ci si accorge subito che nei 30 e passa chilometri camminano migliaia di persone (30.000 negli ultimi anni) e che l’orrore dei ricordi di guerra resta in un angolo del cervello, forse perché è primavera, il Pot attraversa prati e boschi e la gente che cammina, sembra condividere un unico grande respiro. Il percorso è bellissimo com’è un gioiellino la capitale di questo piccolo Stato di poco più di due milioni di abitanti. In 75 anni la città si è allargata e così si passa anche in mezzo a rioni di periferia, a condomini nuovi, si attraversano trafficati viali di circonvallazione, ma a Lubiana non mancano giardini e parchi e non si ha mai la sensazione di essere in mezzo al cemento. Gran parte del percorso è un comodo sterrato in mezzo agli alberi con dislivelli minimi, prati e boschi tutto intorno. Lungo il circuito si incontrano colonnine di cemento con inciso il disegno del filo spinato ed il nome del collettivo della fabbrica o della scuola che le ha volute conficcare nel terreno proprio là dove c’era stata una postazione di mitragliatrici; si passa di fianco ai bunker che controllavano l’esterno di quell’immenso campo di concentramento che era Lubiana e le piazzole dove era posizionata l’artiglieria pesante e dove adesso c’è un tavolone di legno con le panche per fare merenda. Non c’è confusione, anzi, anche se la gente è davvero tanta: un bimbetto sul triciclo, un ragazzo con il cane al guinzaglio, un anziano che di lato si cambia la maglietta sudata e poi famiglie intere, generazioni diverse fianco a fianco. Qualche rara maglietta con il Che, qualche altra con l’immagine di Tito, soltanto Levica (il partito della sinistra slovena) si muove in gruppo dietro una grande bandiera rossa. La maggioranza cammina e basta, in tenuta da trekking o con semplici scarpe da passeggio: niente da dimostrare oltre all’esserci. Può fare caldo a maggio ma doveva fare ben più caldo in quel luglio del 1942 quando furono soppresse tutte le comunicazioni postali, telegrafiche e telefoniche e vietato viaggiare sui treni, muoversi con qualsiasi mezzo o a piedi senza lasciapassare, sostare o muoversi nello spazio di un chilometro ai due lati delle linee ferroviarie. Chi disobbediva veniva passato per le armi. Nei bunker, lungo il percorso, ci si può fermare a guardare il cartello che indica i paesini incendiati proprio lì davanti, i partigiani e gli ostaggi fucilati. Di fronte alla riottosità della popolazione e alle azioni di sabotaggio che si moltiplicavano, era stato disposto di radere al suolo "gli edifici da cui partiranno offese alle autorità o truppe italiane", di "internare famiglie, categorie di individui e, se occorre, intere popolazioni di villaggi e zone rurali" e "considerare corresponsabili dei sabotaggi, in genere, gli abitanti di case prossime al luogo in cui essi vengono compiuti". Ordini firmati da Grazioli, dal comandante Roatta (che un anno dopo ordinerà di applicare il criterio della "testa per dente") o dal generale di corpo d’armata Robotti. Ma tutto questo orrore sembra scivolare via da sotto i piedi percorrendo il Pot: si può attraversare il ponte sulla Ljublanjca, salire sulla collina del Golovec, fermarsi in uno dei chioschi attrezzati per una birra fresca e un panino, sedersi sulle panchine o sull’erba, magari intorno al laghetto di Koseze per guardare i riflessi della luce sull’acqua. C’è una straordinaria carica positiva in una giornata così, in questo camminare assieme: un grande senso di pace, sì, come un grande lungo respiro comune.

MARINELLA SALVI

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