Sono i giorni dei numeri 10 del calcio. Dei fantasisti, dei giocatori in grado di capovolgere, in qualsiasi momento, con un colpo imprevedibile, un assist impossibile, un tiro soltanto apparentemente sbilenco, il senso di una partita. Quindici anni senza Omar Sivori: l’estroso rebelde, calzettoni abbassati, il tunnel come filosofia esistenziale. Ci manca e ci mancherà sempre.

Gianni Agnelli lo definì "un vizio"; Roberto Baggio, il Divin Codino, che festeggia i suoi 53 anni, rappresentò per anni la luce del nostro football, l’immaginazione al potere, l’ebbrezza delle notti magiche; Diego Armando Maradona, ora allenatore del Club de Gimnasia y Esgrima de La Plata, continua a mostrare il suo corpo e il suo orgoglio, è il mio personalissimo Borges della pelota, il giocatore capace di mettere insieme la realtà e l’utopia. Ma il mio pensiero va, oggi, alla solitudine di Pelé, alla sua sofferenza, alla sua lotta quotidiana.

Il figlio Edinho, nei giorni scorsi, ha parlato così del padre: "È malato e depresso, non esce di casa", questo a causa di un’operazione all’anca che lo costringe a muoversi con un girello. La Perla Nera ha fatto sentire la sua voce, smentendo, in parte, le parole di Edinho: "Trascorro giorni buoni e giorni cattivi, ma inseguo sempre il sogno e il desiderio di far rotolare la palla". Pelé ha conquistato tre mondiali (Svezia 1958, Cile 1962 e Messico 1970), ha legato il suo nome al Santos, prima di finire la carriera, tra coriandoli e lustrini, negli Stati Uniti.

Ha sempre saputo indossare la gloria con consapevolezza e fermezza, senza mai lasciarsi andare, l’immagine di un uomo sicuro, sorridente e forte, artefice del proprio destino. Ora fa i conti con le fatiche della vita. Lui, capace sul prato verde di racchiudere tutte le meraviglie del possibile. Gli dedichiamo le parole di uno dei più grandi scrittori brasiliani, un punto di riferimento continuo per tutti i narratori sudamericani: Jorge Amado. Una voce, limpida e forte, che continua a esistere e resistere nei suoi romanzi. Leggiamo da "Navigazione di cabotaggio. Appunti per un libro di memorie che non scriverò mai", traduzione di Irina Bajini, Garzanti, in una nota del 1991 da Bahia, la sua Bahia: "Che bella persona è Pelé, al secolo Edson Arantes do Nascimento, grande brasiliano, uno dei più grandi. Ineguagliabile artista del calcio, non c’è mai stato nessuno come lui, né mai ci sarà. Nato nel Minas Gerais, da bambino suscitava stupore in chi lo vedeva giocare, a diciassette anni vinse la Coppa del Mondo in Svezia, ha fatto per decenni la felicità negli occhi nel cuore della gente, ogni gol era un capo lavoro, è un genio del pallone, il simbolo della dignità sportiva".

Infine, nella chiusa, una stilettata: "Un certo settore dei mass media brasiliani detesta Pelé e cerca di oscurarne la gloria. Per veder riconosciuta la sua grandezza, dovrebbe bere e avere un brutto carattere, vivere nella miseria e avere un brutto carattere". Nel 1994, in una intervista per il mio giornale, Tuttosport, Jorge Amado mi disse: "Sono realmente un appassionato di calcio. Il calcio è qualcosa di più che un semplice sport: è, allo stesso tempo, arte. Una buona partita di football rappresenta uno spettacolo straordinario di danza, con la caratteristica di trattarsi di una danza improvvisata in ogni suo momento da ventidue ballerini. Accade, a volte, che uno di questi ballerini abbia il virtuosismo di Pelé o di Garrincha, di Didi o di Nilton Santos, di Domingos da Guia o di suo figlio Ademir: e così lo spettacolo diventa incomparabile". Spediamo a Pelé queste cartoline firmate da Amado: un piccolo, significativo antidoto contro la sua attuale malinconia.

di DARWIN PASTORIN